Risarcimento danni da ritardata assunzione

Risarcimento da ritardata assunzione: breve
commento alla sentenza T.A.R. Bari, Sez. II, 1 marzo 2012 n. 479.
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1. La sezione seconda del TAR di
Bari era chiamata a decidere una domanda di risarcimento dei danni per il
ritardo nell’assunzione come ricercatore universitario. Ritardo dovuto
all’illegittimità  della procedura comparativa per la copertura del posto in
questione, annullata due volte da sentenze del medesimo TAR, confermate in
appello. Solo alla “terza tornata”, la Commissione ha valutato i candidati
secondo le indicazioni delle quattro sentenze, proclamando vincitrice la
ricorrente.
La domanda di risarcimento si articolava in tre
distinte pretese, rispettivamente volte al ristoro: della mancata percezione
dello stipendio dal momento della conclusione della prima procedura comparativa
a quello dell’assunzione; della perdita di chance,
per il rallentamento della carriera universitaria; del danno non patrimoniale.
Ci si limiterà  ad esporre gli spunti teorici
stimolati dal capo della sentenza sulla prima partizione della domanda.
Il Collegio, qualificata la fattispecie concreta
al suo vaglio come fatto illecito ex art.
2043 c.c., si spinge alla ricerca degli elementi necessari alla condanna al
risarcimento e della loro prova, secondo un modello di responsabilità  aquiliana
“attenuata”, ormai invalso nella giurisprudenza amministrativa: stante
l’annullamento dell’illegittimità  quale incontrovertibile accertamento
dell’elemento oggettivo, l’elemento soggettivo dell’illecito si presume iuris tantum, salva, cioè, la
dimostrazione dell’errore scusabile da parte dell’amministrazione; a carico del
ricorrente rimane, invece, la prova del nesso etiologico e dell’entità  del
danno (aggiungerei: nei limiti in cui questi elementi siano nella sua
disponibilità , ai sensi dell’art. 64, c.1, c.p.a.).
Pur dichiarando di rimanere nell’alveo di questa
impostazione, la sentenza, in realtà , ne tenta un superamento, in forza del
diritto positivo. Afferma, infatti, che il codice del processo amministrativo
avrebbe innovato anche la fattispecie sostanziale dell’illecito derivante da
attività  provvedimentale, richiedendo, per la sua integrazione, la sola
illegittimità  dell’atto e relegando la rilevanza dell’elemento soggettivo alla
quantificazione del danno (art. 30, cc. 2 e 3, c.p.a.).
Nella quantificazione
del danno, però, introduce una decurtazione del 20% della c.d. differenza
retributiva spettante alla ricorrente, non in funzione del mancato esperimento
dei mezzi di tutela da parte del danneggiato o della presenza di un errore anche
solo parzialmente scusabile, ma in virtù della considerazione che il
riconoscimento integrale della differenza retributiva “comporterebbe una vera e
propria restitutio in integrum sul modello della responsabilità
contrattuale, estranea al presente giudizio”.
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2. La sentenza si
distingue per il tentativo ricostruttivo della fattispecie dell’illecito
derivante da provvedimento illegittimo, ma non lo porta a completo frutto.
In primo luogo, la
riduzione in pristino, in forma specifica o per equivalente, non è affatto una
misura limitata al campo della responsabilità  contrattuale, ma strumento
normale di riparazione dei danni, quale che essi siano. Basti pensare
all’alternatività  della reintegrazione in forma specifica a quella per
equivalente (condizionata alla possibilità  e alla non eccessiva onerosità  del
debitore- art. 2058 c.c.) e al riferimento ai medesimi parametri di calcolo del
risarcimento (art. 1223 c.c., richiamato dall’art. 2056 c.c.).
Ciò, del resto, riposa
su una considerazione di giustizia ed uguaglianza non eludibile: il danno ha la
stessa consistenza, sia esso derivante da inadempimento o da fatto illecito, ed
il suo ristoro deve essere integrale.
Ma la questione della
natura di questo ristoro è più complessa ed interessante.
Il meritorio tentativo di ridurre la portata
dell’elemento soggettivo dell’illecito dell’amministrazione poggia sulla constatazione
della sua inafferrabilità , come emerge anche dalla puntuale contestazione delle
eccezioni dell’amministrazione. Il che, del resto, è l’inevitabile conseguenza
di un modello di invalidità  (quello dell’atto amministrativo) totalmente
oggettivo, in cui nemmeno lo sviamento di potere (oggetto di accurata disamina
da parte della sentenza, come fattore di emersione del dolo o della colpa
dell’amministrazione) può attingere all’intenzionalità  della illegittimità : la
difformità  dell’interesse curato dal provvedimento rispetto a quello previsto
dalla legge (solitamente, la norma organizzativa che ha istituito il plesso
agente o quella attributiva del potere) è valutata con riferimento a quanto
esternato nell’atto ed alla sua attitudine concreta alla cura di determinati
interessi anzichè di altri, non all’intenzione dell’organo o dell’ente. E lo
stesso potrebbe essere ripetuto per ogni figura sintomatica.
Questa conclusione è corollario della
riflessione dottrinale che, a partire dalla fine degli anni Trenta (con la
monografia di Giannini- 1939), ha spostato il fuoco del concetto di
discrezionalità  da una prospettiva volontaristica (intenzioni e motivi dell’atto
amministrativo) a quella di giudizio intellettivo (assiologico), riconsiderando
il vizio di eccesso di potere come vizio della funzione (Benvenuti), anzichè
vizio dei motivi o della volontà  del provvedimento.
In altre parole, se il danno è originato
dall’atto illegittimo, non può esservi discussione sull’elemento soggettivo,
poichè esso è giuridicamente irrilevante per la qualificazione di
illegittimità . A meno che non si consideri che l’illecito da attività
provvedimentale consti di un elemento oggettivo composito, che vada oltre la
mera dell’illegittimità  dell’atto.
Non è, infatti, detto che ogni domanda di
risarcimento dei danni derivanti da provvedimento faccia riferimento alla sola
illegittimità  dell’atto quale causa del danno (cioè, elemento oggettivo
etiologicamente apprezzato). Vi potrebbe essere il caso in cui il provvedimento
è solo un’evidenza della condotta dannosa o una mera rappresentazione
documentale di un comportamento materiale. In queste ipotesi, però, sembrerebbe
che non vi sia lesione di interessi legittimi, ma di diritti soggettivi (come
nel caso delle domande proposte per seconda e terza dalla ricorrente, nel
giudizio in commento).
In ciò risiede la ragione di un diverso
intendimento della fattispecie di illecito, non nella formulazione dell’art. 30
c.p.a. che, da un lato, è piuttosto ambigua sul punto, mentre dall’altro, non
avrebbe potuto incidere sulla fattispecie di danno da un punto di vista
sostanziale, pena l’eccesso di delega.
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3. Bisogna, quindi, tenere
distinte le ipotesi in cui il danno derivi solo dall’illegittimità  del
provvedimento, rectiusdall’antigiuridicità  della produzione degli effetti dell’atto positivi (modificazione,
estinzione o costituzione di situazioni giuridiche soggettive) o negativi (diniego
di produzione degli effetti), da quelle in cui l’atto è solo parte o simulacro
documentale di una condotta dannosa più articolata. E all’interno del primo
corno dell’alternativa va ulteriormente distinto il caso in cui il
provvedimento sia stato annullato, da quello in cui l’annullamento manchi e si
chieda l’accertamento incidenter tantum dell’illegittimità
(soprattutto per le conseguenze giuridiche che si vedranno al n.4).
La domanda di ristoro (si usa ancora un termine
atecnico) della posizione retributiva appartiene alla prima ipotesi, con
annullamento: è il classico ristoro degli interessi legittimi pretensivi, a
seguito dell’accoglimento dell’istanza, “ritardato” a causa dell’illegittimità
del precedente diniego censurato dal g.a.. Il danno, cioè, deriva dalla mancata
produzione degli effetti richiesti dal privato, avvenuta solo dopo la
conformazione dell’amministrazione all’annullamento (nella specie ripetuto)
dell’atto negativo di effetti (quantomeno nei confronti di colui che avrebbe
dovuto beneficiarne). Lo stesso può dirsi in caso di lesione di interessi
legittimi oppositivi (di ancor più ovvia comprensione): l’annullamento di un
atto produttivo di effetti restrittivi, comporta l’obbligo di ripristinare lo status quo ante, per equivalente ove
fosse impossibile la riduzione in pristino in forma specifica.
Si tratta di garantire al ricorrente la
retroattività  dell’annullamento degli atti lesivi, impedita nella realtà
materiale, attraverso il riconoscimento integrale della situazione in cui si
sarebbe trovato se l’amministrazione avesse provveduto legittimamente fin
dall’inizio. Ossia di portare a compimento l’effetto ripristinatorio
dell’annullamento.
La pretesa azionata, perciò, ha natura
ripristinatoria, derivante dalla retroattività  dell’annullamento (in questo
caso non limitata). E per tale motivo a nulla serve ragionare sull’elemento
soggettivo, nemmeno con riferimento alla quantificazione del danno: non si
tratta di un illecito a sè stante, ma del pieno dispiegamento degli effetti
dell’annullamento dell’atto lesivo. Pertanto, l’ammontare del “danno” deve
corrispondere all’equivalente dell’impossibile retroazione degli effetti
dell’annullamento (quindi: al “ritardo” nel rilascio del provvedimento
favorevole, al mancato godimento della situazione giuridica incisa dal
provvedimento restrittivo, ecc.).
Si noti che tale considerazione è al fondo della
sentenza della sez. I del TAR di Bari, n. 569/2012, in cui, annullato il
diniego di assunzione, motivato in forza del blocco imposto dalla c.d. legge
Gelmini, si riconosce il “diritto” di assunzione a far data dalla chiamata
della Facoltà  ed il relativo trattamento giuridico ed economico.
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4. La distinzione operata comporta
una serie di conseguenze, per le ipotesi di danno riconducibili alla sola illegittimità
del provvedimento.
Innanzitutto, la “riabilitazione” della
pregiudiziale di annullamento in senso tecnico- processuale, quantomeno per i
vantaggi che assicura al cittadino: l’annullamento assicura una reintegrazione
piena, senza dover dimostrare gli altri elementi dell’illecito, ma solo il
valore dell’impossibile retroazione degli effetti. I “danni da annullamento”
assumono (ma forse l’hanno sempre avuta) una fisionomia del tutto peculiare.
Con ciò, evidentemente, non si intende
precludere la via propriamente risarcitoria (presupponente l’illecito in senso
compiuto), in assenza dell’impugnazione e dell’annullamento del provvedimento
lesivo: per ottenere tale risarcimento sarà  necessario dimostrare tutti gli
elementi dell’illecito, senza nemmeno che sia precluso il completo ripristino
della situazione anteriore all’adozione del provvedimento. Certamente, il
completo ripristino sarà  difficile in questi casi, perchè la consistenza della
pretesa risarcitoria sarà  valuta tenendo conto della gravità  della violazione
(da non confondere con l’elemento soggettivo dell’amministrazione, giacchè si
tratta di una valutazione oggettiva che sfugge anche ai paragoni con la diligenza
del funzionario medio- retaggio del pensiero di Cammeo) e del concorso del
danneggiato alla produzione del danno (art. 30, c.3, secondo alinea- in
disparte la problematicità  di pensare a tale concorso come ad un evento
interruttivo del nesso causale fra condotta dell’amministrazione e danno).
Solo nei casi del typus di quello in questione il dies
a quo del termine decadenziale di 120 giorni può essere individuato nel passaggio
in giudicato della sentenza (art. 30, c.5, c.p.a.), mentre nelle altre ipotesi
detto termine deve decorrere “dal giorno in cui si è verificato il fatto” (art.
30, c.3, c.p.a.).
Questo genere di domande, poi, dovrebbe trovare
la propria più opportuna sede in ottemperanza, giacchè volto al completo
dispiegamento degli effetti della sentenza demolitoria, ai sensi del combinato
disposto del comma 2, lett. a), (“L’azione di ottemperanza può essere proposta
per conseguire l’attuazione: a) delle sentenze del giudice amministrativo
passate in giudicato”) e del novellato comma 3 (“Può essere proposta, anche in
unico grado dinanzi al giudice dell’ottemperanza, [¦] azione di risarcimento
dei danni connessi all’impossibilità  o comunque alla mancata esecuzione in
forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o
elusione”) dell’art. 112 c.p.a..
Il tutto lasciando da parte l'(inesistente)
elemento soggettivo dell’illegittimità .

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