Il decreto legge cd. “salva-Italia” e il rilancio della crescita economica attraverso, ancora una volta, nuovi interventi in materia di appalti pubblici: la saga continua

Il decreto legge cd. “salva-Italia” e il rilancio della crescita economica attraverso, ancora una volta, nuovi interventi in materia di appalti pubblici: la saga continua
di Michele Didonna e Domenico Damato.

Come preannunciato da indiscrezioni circolate immediatamente dopo la nomina del Governo “Monti”, il decreto legge cd. “salva-Italia”, n. 201 del 6.12.2011, non ha lesinato nuovi, settoriali interventi in materia di contratti pubblici: che le attenzioni dell’Esecutivo avrebbero certamente mirato la materia degli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture lo si era intuito, del resto, sin dalla scelta del Presidente del Consiglio di accorpare in un unico dicastero i Ministeri dello Sviluppo Economico e delle Infrastrutture e Trasporti, nell’evidente convincimento che la promozione e lo sviluppo della competitività  del sistema produttivo nazionale e del mercato interno passano inevitabilmente attraverso il rilancio delle opere pubbliche indispensabili all’ammodernamento del Paese.
Tanto, secondo il trend che, a partire dal decreto-legge n. 70 del 14.5.2011, ha contraddistinto l’azione del poteri pubblici nell’obiettivo di coniugare rigore nei conti dello Stato e crescita economica, indispensabili a rafforzare la credibilità  del “sistema-Italia” sui mercati internazionali; così, il decreto-legge n. 201/2011 reca “disposizioni urgenti per la crescita, l’equità  e il consolidamento dei conti pubblici”.
Tra queste spiccano gli interventi di cui agli artt. 44 e 45 in commento, aventi a oggetto, in particolare, l’incidenza del costo del lavoro negli appalti pubblici, con l’abrogazione del discusso art. 81, comma 3 bis, D.Lgs. n. 163/2006, recentemente introdotto ex abrupto dalla legge n. 106 del 12 luglio 2011, di conversione del D.L. n. 70/2011, le nuove ipotesi di cd. “interpello” di cui all’art. 140 del Codice dei contratti pubblici, l’inserzione dei commi 1 bis e ter all’art. 2 del Codice recanti il nuovo principio del favor per l’accesso delle piccole e medie imprese alle procedure di affidamento delle commesse pubbliche; l’art. 45, invece, pur afferendo la materia edilizia, riverbera i propri effetti sul D.Lgs. n. 163/2006 inibendone l’applicazione con riguardo all’esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria di importo inferiore alla soglia comunitaria.

La soppressione dell’art. 81, comma 3 bis, D.Lgs. n. 163/2006.
Sin dalla sua introduzione a opera, si ripete, della legge di conversione n. 106/2011, la disposizione di cui al comma 3 bis dell’art. 81 del Codice ha suscitato un acceso dibattito tra coloro che riconoscevano alla stessa una portata assolutamente innovativa e deflagrante sulle procedure di scelta del miglior contraente e coloro che, invece, sostenevano come, in fondo, nulla fosse mutato in ordine agli obblighi incombenti sulle imprese e le stazioni appaltanti nella partecipazione alle gare pubbliche; l’abrogazione della disposizione in parola oggidì sancita dall’art. 44, comma 2 del decreto-legge n. 201/2011, consegue l’obiettivo di chiudere la querelle che, anche in seno all’A.V.C.P., si era sviluppata in merito alla sua corretta applicazione.
Com’è noto, il comma 3 bis dell’art. 81 prevedeva che l’offerta migliore è, altresì, determinata al netto delle spese relative al costo del personale, valutato sulla base dei minimi salariali definiti dalla contrattazione collettiva nazionale di settore, e delle misure di adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.
Assieme all’introduzione della surriportata disposizione, la legge n. 106/2011 ha disposto l’abrogazione della lett. g) del comma 2 dell’art. 87, D.Lgs. n. 163/2006, ove era previsto che le giustificazioni del concorrente in sede di verifica dell’offerta anomala avrebbero potuto riguardare il costo del lavoro come determinato periodicamente in apposite tabelle dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, sulla base dei valori economici previsti dalla contrattazione collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi.
Il trascritto, complessivo intervento legislativo, com’è evidente, ha avuto quale finalità  precipua quella di rimarcare la lotta al lavoro nero e sottopagato, in chiave di rafforzamento del principio di concorrenza (leale) tra le imprese aspiranti all’affidamento dei contratti pubblici.
In siffatta prospettiva l’abrogazione della citata lett. g) è stata accolta con favore in quanto la formulazione della norma risultava obiettivamente equivoca.
Doveva, infatti, escludersi che per “costo del lavoro” di cui alla precitata disposizione potesse intendersi il livello minimo salariale stabilito dalla contrattazione collettiva poichè, in caso contrario, sarebbero state ammesse giustificazioni all’impiego di lavoro nero o manodopera non qualificata; conseguentemente, la disposizione in parola non poteva che riferirsi al “costo complessivo del lavoro”, solo tendenzialmente indicato dalle tabelle ministeriali e, pertanto, variabile a seconda della specifica “produttività ” dell’impresa su cui erano pacificamente ammesse giustificazioni ai sensi della lettera a) dello stesso comma 2 dell’art. 87: “Le giustificazioni possono riguardare, a titolo esemplificativo: a) l’economia del procedimento di costruzione, del processo di fabbricazione, del metodo di prestazione del servizio”.
Notevoli ambagi interpretativi ha comportato, invece, come cennato, il comma 3 bis dell’art. 81.
A partire dalla sua collocazione all’interno della disposizione (l’art. 81) relativa ai metodi di scelta dell’offerta migliore e, così, ai criteri del prezzo più basso e dell’offerta economicamente più vantaggiosa di cui ai commi 1 e 2: la disposizione in parola, dunque, contemplava un ulteriore criterio di selezione delle offerte, applicabile in ogni caso, in quanto l’offerta migliore avrebbe dovuto “altresì” essere determinata scorporando (“al netto”) il costo del personale valutato sulla base dei minimi salariali e (il costo) delle misure in materia di salute e sicurezza dei luoghi di lavoro.
Si poneva, così, il problema di “come” determinare il costo del personale e di “chi” avrebbe dovuto provvedervi.
In tal senso le prime indicazioni applicative (cfr. Gruppo di Lavoro Interregionale “Codice dei contratti” operante presso “ITACA” del 14.7.2011) proponevano che la stima del costo del personale incombesse ex ante sulla stazione appaltante in fase di progettazione tanto dei lavori pubblici, mercè il quadro di incidenza della manodopera previsto dall’art. 39, comma 3, D.P.R. n. 207/2010 (Regolamento di esecuzione e attuazione del Codice dei contratti pubblici), che dei servizi e delle forniture attraverso l’elaborato progettuale relativo al “calcolo della spesa per l’acquisizione del bene e del servizio” di cui all’art. 279, D.P.R. n. 207/2010 cit..
Ma soprattutto si riteneva che il costo del lavoro dovesse essere valutato come “costo puro ed incomprimibile da non assoggettare al mercato, in perfetta analogia con i costi aggiuntivi per la sicurezza”: siffatta voce di costo, pertanto, non era più soggetta a ribasso d’asta.
In siffatta prospettiva si assumeva implicitamente superato il disposto di cui all’art. 86, comma 3 bis, D.Lgs. n. 163/2006, nella parte in cui impone ancora la verifica dell’anomalia con riguardo alla componente del costo della manodopera, in quanto “il costo del personale non è più elemento di offerta e, pertanto, non dovrà  più essere sottoposto a verifica di congruità “.
La soluzione proposta presentava, tuttavia, effetti distorsivi sul piano teorico-pratico.
In via esemplificativa, si ricordi come veniva obiettato in primo luogo che, operandosi nel modo sopra indicato, l’importo complessivo dell’appalto posto a base di gara doveva essere suddiviso in tre parti: costo del lavoro, costo della sicurezza e costo dei materiali, dei noli a caldo e a freddo, delle attrezzature, spese generali e utile delle imprese; non essendo ribassabili le prime due voci, il confronto concorrenziale si sarebbe svolto su una percentuale molto ridotta del costo complessivo dell’appalto (soprattutto nelle commesse a elevata intensità  di manodopera).
Il meccanismo di aggiudicazione così proposto, inoltre, presentava notevoli inconvenienti in concreto per le stazioni appaltanti, allorchè si utilizzava il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ove è richiesto alle imprese di predisporre offerte migliorative del progetto posto a base di gara; in tal caso, alcuna efficacia avrebbe avuto la stima ex ante operata in fase di progettazione da parte dell’amministrazione aggiudicatrice.
Problemi operativi si ponevano, altresì, con riguardo a talune tipologie di servizi e forniture a bassa intensità  di manodopera in cui risultava impossibile determinare il costo del personale in sede di progettazione (si pensi ai servizi informatici o assistenziali, alle forniture di prodotti sanitari, ovvero realizzati in paesi esteri); per questi ultimi, infatti, l’importo a base di gara è stimato dalla stazione appaltante sulla base del parametro del miglior prezzo di mercato che, tuttavia, non specifica il costo del personale: cfr. Documento di consultazione “Prime indicazioni sui bandi tipo: tassatività  delle cause di esclusione e costo del lavoro” dell’A.V.C.P del 3.8.2011.
Infine, e soprattutto, sul piano operativo si propugnava la soluzione per cui le stazioni appaltanti dovessero fissare nei bandi e nelle lettere d’invito il costo del lavoro e, conseguentemente, provvedere all’esclusione, per così dire “automatica”, delle imprese che avessero proposto un costo del lavoro inferiore a quello a monte stimato; tanto sulla scorta dell’erronea presupposizione per cui siffatta voce di costo non fosse più ribassabile, esattamente come previsto per il costo della sicurezza dall’art. 87 comma 3 ter, D.Lgs. n. 163/2006.
Epperò, era agevole obiettare come un espresso divieto di ribasso non era in alcuna guisa rintracciabile nel Codice con riguardo al costo della manodopera (diversamente, dunque, da quanto previsto per i costi della sicurezza); tanto neppure a seguito dell’intervento legislativo di cui alla legge n. 106/2011.
Invero, come detto, assieme all’introduzione del comma 3 bis dell’art. 81, quest’ultima novella aveva abrogato la lett. g), comma 2 dell’art. 87, mentre aveva conservato la disposizione di cui al successivo comma 3 secondo cui: “¦ non sono ammesse giustificazione in relazione ai trattamenti salariali minimi inderogabili stabiliti dalla legge o da fonti autorizzate dalla legge”.
Il ridetto intervento normativo confermava, pertanto, la volontà  del legislatore di rimarcare come l’individuazione dell’offerta migliore non può prescindere dalla verifica in concreto del rispetto da parte dell’aggiudicatario dei trattamenti salariali minimi inderogabili stabiliti dalla contrattazione collettiva, oltrechè dei costi della sicurezza non soggetti a ribasso.
Siffatta valutazione compete, altresì, alla stazione appaltante, non solo ex ante in fase di progettazione, bensì, soprattutto, nell’ambito del procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta, stante il disposto dell’art. 86, comma 3 bis, che non è stato attinto dalla legge n. 106/2011 e che, com’è noto, recita: “¦ nella valutazione dell’anomalia delle offerta nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità  e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi e delle forniture”.
Il tracciato approdo esegetico riceve oggidì piena conferma dai commi 1 e 2 dell’art. 44, D.L. n. 201/2011 in esame ove, come osservato, è stata disposta l’abrogazione dell’art. 81 comma 3 bis, D.Lgs. n. 163/2006, ma non è stato parallelamente riesumato l’art. 87, comma 2, lett. g), così ribadendosi il divieto di giustificazioni in relazione a trattamenti salariali minimi inderogabili stabiliti dalla contrattazione collettiva.
La disposizione in esame avalla il convincimento per cui l’incidenza del costo del lavoro nella misura minima garantita dai contratti vigenti, nonchè la salute e la sicurezza dei luoghi di lavoro risultano già  adeguatamente tutelati dalle disposizioni vigenti innanzi passate in rassegna tra cui: l’art. 86, commi 3 bis e 3 ter; l’art. 87, comma 3 e 4, D.Lgs. n. 163/2006 (oltrechè l’art. 89, comma 3, D.Lgs. n. 163/2006, nonchè, in via generale, in via generale, l’art. 36 dello Statuto dei lavoratori in tema di obblighi degli appaltatori di opere pubbliche e gli artt. 26, commi 5 e 6, e 27, D.Lgs. n. 81/2008, circa gli obblighi del datore di lavoro in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro).
A siffatte conclusioni mostra di aderire anche la recente giurisprudenza amministrativa allorchè, con riguardo all’art. 81 comma 3 bis, ha affermato come: “¦ resta invariato l’art. 86 co. 3 bis del d.lgs. n. 163/2006 (che) prescrive una rigorosa verifica del rispetto del costo del lavoro alla luce delle indicazioni “tendenziali” evincibili dalle tabelle ministeriali. E’ sul punto pacifica e univoca giurisprudenza, congruente anche con le più recenti indicazioni normative (si veda il nuovo art. 81 co. 3 bis) che inderogabili siano solo i minimi salariali di costo del lavoro dettati dalla contrattazione collettiva i quali, in sede di valutazione di congruità  di un’offerta, non possono che essere ritenuti inderogabili ¦ i restanti maggiori costi, se pure esistenti, possono essere concretamente giustificati in termini anche minori rispetto a quanto astrattamente e omogeneamente previsto dalle tabelle ministeriali” (T.A.R. Piemonte, Sez. I, 4 novembre 2011, n. 1173).
Alla luce dell’accidentato iter normativo sopra descritto, sembra a questo punto doveroso rilevare come fossero nella retta via coloro che, sin dall’inizio, hanno propugnato un’interpretazione dell’art. 81, comma 3 bis, nel senso della sua superfluità  ai fini della piena salvaguardia dei diritti inderogabili dei lavoratori nell’ambito degli appalti pubblici: a meno di inattese sorprese in sede di conversione del comma 2 dell’art. 44 del D.L. n. 201/2011.

Le modifiche all’art. 140, D.Lgs. n. 163/2006, in tema di cd. “interpello”.
Altra importante novità  portata dal comma 6 dell’art. 44, decreto legge n. 201/2011, attiene alla modifica dell’art. 140, comma 1, D.Lgs. n. 163/2006 ove, dopo le parole “in caso di fallimento dell’appaltatore”, sono aggiunte le seguenti: “o di liquidazione coatta e concordato preventivo dello stesso” e, dopo le parole “ai sensi degli artt. 135 e 136”, sono aggiunte le seguenti: “o di recesso dal contratto ai sensi dell’art. 11, comma 3 del decreto del Presidente della Repubblica 3 giugno 1998, n. 252”.
Il tema, com’è noto, attiene alla possibilità  per la stazione appaltante, in caso di fallimento e oggi di liquidazione coatta e concordato preventivo dell’appaltatore (oltrechè di risoluzione del contratto per grave inadempimento), di interpellare progressivamente i soggetti che hanno partecipato alla procedura di gara al fine di stipulare un nuovo contratto per il completamento dei lavori, a partire dal soggetto che ha formulato la migliore offerta fino al quinto miglior offerente escluso l’originario aggiudicatario; con l’indispensabile precisazione di cui al comma 2, secondo cui l’affidamento avviene alle medesime condizioni già  proposte da quest’ultimo in sede di offerta.
E’ parimenti noto come la procedura di interpello ex art. 140 Codice dei contratti pubblici ha subito vari rimaneggiamenti: la stessa è stata, infatti, radicalmente modificata dal cd. “terzo correttivo” (D.Lgs. n. 152/2008) in esito alla procedura di infrazione comunitaria n. 2007/2309 con cui la Commissione europea rimproverava allo Stato Italiano di aver generalizzato il ricorso alla procedura negoziata al di fuori dei casi previsti dal diritto comunitario: tanto ha condotto all’abrogazione dei commi 3 e 4 dell’art. 140.
Ancora, un’ulteriore modifica è stata apportata dal D.L. n. 70/2011 che ha espunto dal comma 1 l’inciso per cui la possibilità  di interpello avrebbe dovuto essere prevista a monte nel bando di gara, così elevando l’istituto dell’interpello a regola generale in materia di appalti pubblici: nei limiti, tuttavia, dei presupposti e delle condizioni restrittivamente imposte dalla norma allo scopo di non incorrere nella già  rilevata infrazione comunitaria.
Così, le suddette modifiche legislative, unitamente alla salvezza del solo comma 2, comportano che l’art. 140 possa trovare applicazione esclusivamente qualora sia possibile stipulare col soggetto che segue in graduatoria un contratto avente lo stesso contenuto di quello concluso con l’aggiudicatario originario (in tal senso, Cons. Stato, Sez. VI, 12 aprile 2011, n. 2260).
E’ stato, infatti, ritenuto che l’interpello non costituisce una nuova gara ma si presenta quale ulteriore segmento dell’originaria procedura d’affidamento, della quale assorbe tutti gli atti e gli adempimenti presupposti: non v’è, pertanto, sul piano strutturale, alcuna rinegoziazione delle condizioni di gara, ma semplicemente l’utilizzo delle pregresse offerte che, dunque, restano “blindate”, mentre, sul piano funzionale, tale meccanismo, in luogo dell’indizione di una nuova procedura, risponde anche all’esigenza di efficienza e buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.) attraverso la previsione di uno strumento semplificato che consente lo scorrimento dell’originaria e cristallizzata graduatoria di gara, al contempo garantendone i valori fondamentali (cfr., T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VIII, 10 novembre 2010, n. 23753).
In argomento è intervenuta anche la Corte costituzionale, con la pronuncia 12 febbraio 2010, n. 45, ove, ribadendo come la potestà  legislazione primaria delle Regioni e Province anche a statuto speciale deve esplicarsi in armonia, oltre al resto, con gli obblighi internazionali, tra cui vanno annoverati i principi del diritto comunitario e delle disposizioni contenute nei Trattati dell’Unione europea, ha dichiarato l’incostituzionalità  della disposizione adottata in materia di appalti pubblici dalla Provincia autonoma di Trento che consentiva l’affidamento, in caso di fallimento dell’esecutore o di risoluzione del contratto per grave inadempimento, alle condizioni praticate in sede di offerta da parte dell’impresa interpellata e non dell’aggiudicatario originario, come previsto dal citato art. 140, D.Lgs. n. 163/2006.
La novella di cui al decreto legge n. 201/2011 in commento, dunque, determina un ampliamento dei presupposti di applicabilità  del cd. “interpello” prevedendo accanto alle precedenti ipotesi di fallimento quelle di liquidazione coatta e concordato preventivo dell’appaltatore, nonchè accanto alla risoluzione contrattuale per inadempimento (la gravità  dello stesso, infatti, è stata già  espunta dal D.L. n. 70/2011), quella – si direbbe ovvia – di recesso per il caso di infiltrazione mafiosa.
Se, tuttavia, alcun problema pone la nuova previsione per il caso di liquidazione coatta, e anzi sembra opportuna in quanto quest’ultima, nell’ambito delle procedure concorsuali, determina gli stessi effetti della procedura fallimentare, e ciò per gli espressi richiami contenuti negli artt. 200 e 201 L.F., qualche perplessità  potrebbe sollevarsi con riguardo all’ipotesi di concordato preventivo dell’appaltatore che, com’è noto, ai sensi dell’art. 16 L.F. mira proprio a evitare al debitore meritevole il fallimento della propria iniziativa e le conseguenze pregiudizievoli che ne derivano, attraverso un accordo con i creditori che consenta al primo di conservare l’esercizio dell’impresa (seppur sotto la vigilanza del commissario giudiziale).
La previsione in parola finirebbe, dunque, per consapevole scelta legislativa, coll’aggravare la situazione economica complessiva dell’aggiudicatario sottraendo al medesimo gli introiti rivenienti dall’esecuzione dell’appalto pubblico e ponendolo nella potenziale condizione di non rispettare gli accordi sottoscritti in sede di concordato preventivo: probabilmente contro la ratio ispiratrice della protezione delle P.M.I. di cui al paragrafo successivo.
In contraltare, non può sottacersi l’interesse pubblico salvaguardato dal legislatore con la modifica normativa in argomento, di assegnare l’esecuzione degli appalti pubblici a soggetti “affidabili” in grado di assicurare la migliore riuscita dell’opera o del servizio in termini di qualità  e celerità  della prestazione, oltrechè di sopprimere fenomeni di concorrenza sleale tra le imprese concorrenti conseguente al riciclaggio di denaro proveniente da attività  di tipo mafioso.
Da qui la necessità  di prevedere tassativamente nell’art. 140, D.Lgs. n. 163/2006, ulteriori ipotesi di applicabilità  dell’interpello, anche per l’ovvio recesso in caso di infiltrazione mafiosa, trattandosi di disposizione avente carattere eccezionale, come tale di stretta interpretazione, in quanto, come osservato, individua fattispecie di affidamento dei contratti pubblici in assenza di una procedura di gara a evidenza pubblica e, così, in deroga ai principi comunitari di concorrenza e libera circolazione (cfr. Cons. Stato, n. 2260/2011 cit.).

I nuovi commi 1 bis e 2 bis dell’art. 2, D.Lgs. n. 163/2006.
Il comma 7 dell’art. 44 del D.L. n. 201/2011 porta una novità  di grande rilievo: introduce, infatti, dopo il comma 1 dell’art. 2 del Codice recante, com’è noto, i principi fondamentali che presiedono le procedure di affidamento dei contratti pubblici, il comma 1 bis il quale prevede che: “Nel rispetto della disciplina comunitaria in materia di appalti pubblici, al fine di favorire l’accesso delle piccole e medie imprese, le stazioni appaltanti devono, ove possibile ed economicamente conveniente, suddividere gli appalti in lotti funzionali”; il comma 2 bis, prevede, altresì, che: “La realizzazione delle grandi infrastrutture ¦ nonchè delle connesse opere integrative o compensative, deve garantire modalità  di coinvolgimento delle piccole e medie imprese”.
La novella in parola imprime, dunque, una decisa e significativa virata nella direzione della suddivisione in lotti funzionali degli appalti pubblici imponendo in tal senso un preciso obbligo (“devono”) per le stazioni appaltanti, ove possibile ed economicamente conveniente, in vista dell’obiettivo di favorire il massimo accesso delle piccole e medie imprese alle commesse pubbliche.
Anzi, siffatta modalità  di affidamento dei contratti pubblici, in quanto inserita all’interno dell’art. 2 del Codice, diviene principio generale dell’azione delle amministrazioni pubbliche in subjecta materia, nell’evidente convincimento che tanto rappresenti un concreto volano per il rilancio della competitività  del sistema produttivo e del mercato interno.
Siffatto intervento normativo s’innesta, tuttavia, nella discussa tematica afferente la concreta possibilità  per le stazioni appaltanti di frazionare in più lotti un’opera pubblica.
E’ noto, infatti, come siffatta facoltà  è sempre stata riguardata con sospetto in quanto l’importo dei singoli affidamenti potrebbe essere artatamente ridotto al di sotto delle soglie comunitarie, al fine di aggirare la normativa europea e consentire il ricorso alla trattativa privata in violazione dei principi di libera concorrenza e accesso alle commesse pubbliche.
Non è un caso, infatti, che l’art. 125, comma 13, D.Lgs. n. 163/2006, come il precedente art. 24, comma 4, legge n. 109/1994, ha previsto che nessuna prestazione di beni, servizi e lavori, ivi comprese le prestazioni di manutenzione può essere “artificiosamente frazionata allo scopo di sottoporla alla disciplina delle acquisizioni in economia”.
Il predetto divieto è stato, tuttavia, temperato nel tempo dalla giurisprudenza amministrativa la quale ha più volte ribadito come, in linea di principio, la suddivisione in lotti di un’opera non sia in sè illegittima, afferendo all’esercizio della discrezionalità  della stazione appaltante, nei limiti in cui la stessa non si risolva nella violazione dei principi della libera concorrenza; il concreto esercizio del potere discrezionale deve, infatti, in questo ambito essere funzionalmente coerente con il complesso degli interessi pubblici e privati coinvolti nel procedimento di affidamento degli appalti pubblici, allo scopo di non incorrere nella violazione sostanziale dei principi di libera concorrenza, par condicio, non discriminazione e trasparenza portati dall’art. 2, D.Lgs. n. 163/2006 (in tal senso, Cons. Stato, Sez. IV, 13 marzo 2008, n. 1101).
Così, in tema di global service, è stato ritenuto illegittimo l’accorpamento in un unico appalto di lavori, servizi e forniture, di prestazioni connotate da assoluta disomogeneità  e indeterminatezza dell’oggetto, in considerazione degli effetti limitativi che si producono in ordine alla partecipazione dei possibili concorrenti (cfr. T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 8 maggio 2009, n. 4924).
Ovvero, è stato ritenuto legittimo il frazionamento in lotti disposto dalla stazione appaltante laddove la diversità  delle opere evidenzi, di per sè, la giustificazione della parcellizzazione dell’appalto e risulti contrario all’interesse pubblico che un unico operatore economico possa svolgere insieme attività  che presentino profili di oggettiva incompatibilità  in ragione della destinazione funzionale delle opere da realizzare (nella specie, realizzazione di un impianto di potabilizzazione e del relativo impianto di telecontrollo, in T.A.R. Calabria, Catanzaro, Sez. II, 22 aprile 2009, n. 329).
Viceversa, ha ritenuto il G.A. che ricorresse un caso di frazionamento artificioso dell’appalto nell’ipotesi di affidamento di lavori pubblici concentrati in ambito comunale per definizione circoscritto e tale da consentire il simultaneo controllo operativo dei vari cantieri da parte dell’appaltatore (così, Cons. Stato, Sez. V, 9 giugno 2008, n. 2803).
Nel tracciato solco esegetico il nuovo art. 2 bis del Codice, come introdotto dal D.L. n. 201/2011, prevede, dunque, che le stazioni appaltanti devono suddividere gli appalti in lotti funzionali, ove tanto risulti possibile sul piano tecnico e conveniente sul piano economico; occorre, pertanto, domandarsi quando ciò sia concretamente realizzabile.
In tal senso, tornano di grande attualità  le indicazioni contenute nella determinazione n. 5 del 9.6.2005 con cui l’Autorità  di vigilanza ha fornito la nozione di “lotto funzionale” inteso come quella parte di un lavoro generale la cui progettazione e realizzazione sia tale da assicurarne funzionalità , fruibilità , fattibilità  indipendentemente dalla realizzazione delle altre parti, così richiedendo che ogni singolo lotto abbia una sua propria autonomia, una sua specifica utilità , senza il rischio di inutile dispendio di denaro pubblico in caso di mancata realizzazione della restante parte d’intervento.
Così, esempi tipici di lotti funzionali riguardano, nella pratica quotidiana delle stazioni appaltanti, la costruzione di infrastrutture per la viabilità , oppure la realizzazione di complessi di edifici aventi un’unità  funzionale, come campus o complessi industriali.
In tali circostanze la suddivisione in lotti funzionali trova giustificazione in termini, non solo di possibilità  tecnica, ma anche di convenienza economica dell’appalto in quanto evita, in caso di mancato completamento dell’opera, un deprecabile spreco di risorse economico e, in definitiva, un danno per l’erario: tanto dovrebbe, dunque, rappresentare da domani l’ordinario modus procedendi  delle stazioni appaltanti.
Al contrario, queste ultime continuano a incorrere in un artificioso frazionamento dell’opera, con conseguente aggiramento della normativa nazionale e comunitaria, tutte le volte in cui un’opera costituente un’unità  strutturale e funzionale viene eseguita affidando separatamente parti distinte di essa che non soddisfano le condizioni di fruibilità  e funzionalità  e si traducono, invece, in un illegittimo “scorporamento degli appalti”.
In siffatta evenienza, non può che operare il principio pretorio secondo cui, quando la somma degli importi dei singoli lotti supera la soglia comunitaria, per l’appalto relativo a ciascun lotto deve comunque applicarsi la disciplina comunitaria.
Quanto, invece, al comma 1 ter aggiunto all’art. 2, D.Lgs. n. 163/2006, non può che rilevarsi la valenza meramente programmatica di siffatta disposizione, avendo il legislatore previsto l’accesso alle grandi infrastrutture delle piccole e medie imprese secondo imprecisate “modalità  di coinvolgimento” volta a volta individuate dalla stazione appaltante: non è chiaro, pertanto, in cosa debba intendersi con siffatta locuzione.
Una risposta a tale quesito potrebbe rintracciarsi all’interno della stessa disposizione in commento, allorchè si fa riferimento alle “connesse opere integrative o compensative” delle grandi infrastrutture; in questo caso la stazione appaltante sarebbe tenuta, “ove possibile ed economicamente conveniente”, a garantire la partecipazione alle gare delle P.M.I..
Si evidenzia, altresì, come, in altri ambiti, il legislatore ha espressamente previsto meccanismi cogenti di coinvolgimento di soggetti esclusi nella pratica dalla partecipazione alle gare pubbliche; ci si riferisce, per esempio, all’obbligo per i raggruppamenti temporanei di professionisti di prevedere quale progettista la presenza di almeno un professionista abilitato da meno di cinque anni all’esercizio della professione (art. 253, comma 5 del Regolamento di esecuzione e attuazione dei contratti pubblici, D.P.R. n. 207/2010).
Così, la previsione di modalità  di coinvolgimento delle P.M.I. nella realizzazione delle grandi infrastrutture dovrebbero essere demandata alla disciplina attuativa e di dettaglio del nuovo principio portato dall’art. 2, comma 1 ter, D.Lgs. n. 163/2006.
Diversamente, in mancanza di un obbligo per le amministrazioni aggiudicatrici, non si comprende come tanto possa avvenire, se non ricorrendo agli istituti già  presenti all’interno della disciplina degli appalti pubblici, quali, ad esempio, l’avvalimento o le forme di partecipazione associata alle gare pubbliche (R.T.I., Consorzi ordinari, Consorzi di cooperative artigiane e Consorzi stabili).

Segue: disposizioni residuali.
Si segnalano, infine, i seguenti, ulteriori interventi normativi:
1) il comma 3 dell’art. 44 contiene una norma di interpretazione autentica, prevedendo che le modifiche apportate dall’art. 4, comma 2, lettere n) e v) del D.L. n. 70/2011, rispettivamente, sull’art. 132, comma 3, D.Lgs. n. 163/2006 e sull’art. 169, comma 3, primo periodo, si applicano ai contratti stipulati successivamente alla data di entrata in vigore del medesimo decreto-legge; si tratta, nel primo caso, delle varianti in corso d’opera, ove l’importo in aumento non può superare il 5 per cento dell’importo originario del contratto e deve trovare copertura nella somma stanziata per l’esecuzione dell’opera “al netto del 50 per cento dei ribassi d’asta conseguiti”; nel secondo (art. 169, comma 3), delle infrastrutture e insediamenti produttivi per i quali le varianti progettuali sono approvate qualora non richiedano l’attribuzione di nuovi finanziamenti a carico dei fondi “ovvero l’utilizzo di una quota superiore al cinquanta per cento dei ribassi d’asta conseguiti”;
2) il comma 4, lett. b) dell’art. 44 prevede, altresì, in chiave evidentemente acceleratoria, che il comma 10 bis dell’art. 4, D.L. n. 70/2011 è sostituito nel senso che le disposizioni di cui al comma 2, lett. r), numeri 2 bis) e 2 ter), lett. s), numeri 1) e 1 bis), lett. t), numero 01) e lett. u), si applicano, non più alle opere i cui progetti preliminari sono stati approvati dal CIPE, bensì alle opere i cui progetti preliminari siano “pervenuti” al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, successivamente alla data di entrata in vigore della legge di conversione n. 106/2011 (12.7.2011) del D.L. n. 70/2011;
3) il comma 8, lett. a) dell’art. 44, inserisce un ulteriore art. 112 bis all’interno della sezione del Codice dei contratti relativa ai lavori di importo superiore a 20 milioni di euro, disponendo che per tali lavori, da affidarsi con la procedura ristretta di cui all’art. 55, comma 6, le stazioni appaltanti indicano nel bando che sul progetto a base di gara è indetta una “consultazione preliminare”, garantendo il contraddittorio tra le parti; tali disposizioni si applicano alle procedure i cui bandi o avvisi di gara sono pubblicati successivamente all’entrata in vigore del decreto-legge n. 201/2011.

Modifiche all’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001: esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria.
L’art. 45 del decreto legge n. 201/2011 introduce il comma 2 bis all’interno dell’art. 16, D.P.R. n. 380/2001 disponendo che, nell’ambito degli strumenti attuativi e degli atti equivalenti comunque denominati, nonchè degli interventi in diretta attuazione dello strumento urbanistico generale, l’esecuzione diretta delle sole opere di urbanizzazione primaria (strade residenziali, spazi di sosta o di parcheggio, fognature, rete idrica, rete di distribuzione dell’energia elettrica e del gas, pubblica illuminazione, spazi di verde attrezzato), di importo inferiore alla soglia di cui all’art. 28, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (€ 4.845.000,00), “è a carico” del titolare del permesso di costruire e non trova applicazione il Codice dei contratti pubblici.
E’ noto come il cd. “terzo correttivo” ha introdotto una novità  fondamentale nella materia delle opere a scomputo degli oneri di urbanizzazione: tutte le opere di urbanizzazione, sia primaria che secondaria, a prescindere dal loro importo (inferiore, pari o superiore alla soglia comunitaria) sono ricondotte nella disciplina del Codice dei contratti pubblici e differenziate, in base al valore, esclusivamente sotto il profilo della procedura applicabile.
Tanto, a seguito dell’intervento della Corte di Giustizia che, con la sentenza 12 luglio 2001, n. C 399/1998, ha affermato il principio per cui un’opera di urbanizzazione, secondo la normativa urbanistica italiana, costituisce un appalto pubblico di lavori e, pertanto, qualora l’importo di tali opere sia pari o superiore alla soglia comunitaria, soggiace alla disciplina concorrenziale degli appalti di lavori pubblici.
Così, è stato modificato l’art. 16, D.P.R. n. 380/2001, prevedendosi al comma 2 che a scomputo totale o parziale della quota di contributo dovuta, il titolare del permesso di costruire può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione (primaria e secondaria), nel rispetto dell’articolo 2, comma 5, della legge 11 febbraio 1994, n. 109, e successive modificazioni (riferimento che oggi deve intendersi al Codice dei contratti pubblici), con conseguente acquisizione delle opere realizzate al patrimonio indisponibile del comune (da qui la connotazione di appalto pubblico di lavori).
Conseguentemente, per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria di importo pari o superiore alla soglia comunitaria, l’attuale versione dell’art. 32, comma 1, lett. g), D.Lgs. n. 163/2006 dispone l’applicazione dei Titoli I, IV e V del Codice, con riguardo a lavori pubblici da realizzarsi da parte dei soggetti privati, titolari di permesso di costruire, che assumono in via diretta l’esecuzione delle opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo previsto per il rilascio del permesso ai sensi dell’art. 16, D.P.R. n. 163/2006.
L’amministrazione che rilascia il permesso di costruire, pertanto, può prevedere che, in relazione alla realizzazione delle opere di urbanizzazione, l’avente diritto a richiedere il permesso di costruire presenti alla stessa, in sede di richiesta del permesso di costruire, un progetto preliminare delle opere da eseguire, sulla base del quale indire una gara mediante procedura aperta o ristretta.
Con riguardo, invece, alle opere di urbanizzazione primaria e secondaria di importo inferiore alla soglia comunitaria, l’art. 122, comma 8 del Codice (contratti di lavori pubblici sotto soglia) dispone che tali opere sono affidate mediante la procedura prevista dall’art. 57, comma 6, ovverosia mediante procedura negoziata, senza preventiva pubblicazione del bando, individuando almeno cinque operatori economici da invitare a presentare l’offerta.
Orbene, con l’introduzione a opera dell’art. 45, D.L. n. 201/2011, del nuovo comma 2 bis dell’art. 16, D.P.R. n. 380/2001, il legislatore ha apportato in materia due importanti novità :
1) in primis si riferisce esclusivamente alle opere di urbanizzazione primaria, così prevedendo un regime diverso per quelle di urbanizzazione secondaria (asili nido e scuole materne, scuole dell’obbligo nonchè strutture e complessi per l’istruzione superiore all’obbligo, mercati di quartiere, delegazioni comunali, chiese e altri edifici religiosi, impianti sportivi di quartiere, aree verdi di quartiere, centri sociali e attrezzature culturali e sanitarie) che dunque, restano disciplinate dal quadro normativo innanzi descritto; doppio regime fino a oggi escluso dalla normativa vigente in materia (cfr. T.A.R. Marche, Sez. I, 22 dicembre 2009, n. 1451);
2) ha, inoltre, stabilito che l’esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria, qualora di importo inferiore alla soglia comunitaria (€ 4.845.000,00), resta a carico del titolare del permesso di costruire che è esentato dall’applicazione delle disposizioni del Codice dei contratti pubblici.
In sostanza, non trovano più applicazione le disposizioni di cui all’art. 122, comma 8, D.Lgs. n. 163/2006 per gli appalti sotto soglia e, dunque, le regole della procedura negoziata di cui all’art. 57, comma 6 del Codice.
Ne discende che il soggetto privato titolare del permesso di costruire è obbligato in via esclusiva alla realizzazione diretta a scomputo delle opere di urbanizzazione, potendo provvedervi in prima persona, senza la necessità  di rispettare le regole dell’evidenza pubblica per la scelta dell’appaltatore: tanto nonostante trattasi di opere pubbliche, anche di rilevante importo, che rientreranno nel patrimonio indisponibile del Comune.
La ratio sottesa al descritto intervento legislativo sembra chiara: alleggerire le amministrazioni comunali dell’onere di procedere all’indizione di una gara per l’affidamento dei lavori di importo inferiore alla soglia comunitaria per la realizzazione di tali opere, riversando l’obbligo sul privato cui, al tempo stesso, è riconosciuta la massima libertà  di azione: in un’ottica di maggiore efficacia e celerità  nella realizzazione di siffatti interventi edilizi.
Ciò non toglie, tuttavia, che il privato possa in ogni caso trovare conveniente procedere all’individuazione dell’appaltatore che dovrà  eseguire le opere di urbanizzazione primaria mercè una procedura di gara informale che consenta di reperire sul mercato gli operatori economici e, così, realizzare, a parità  di qualità , un risparmio sui costi di esecuzione delle opere; salvo, infatti, l’obbligo di adempiere a regola d’arte, il privato potrà  eventualmente conseguire un vantaggio economico rispetto al valore stimato ex ante ai fini dello scomputo degli oneri di urbanizzazione dal medesimo dovuti, su cui il Comune non può vantare alcuna pretesa in quanto l’interesse pubblico di quest’ultimo consiste nella sola realizzazione a scomputo delle opere di urbanizzazione primaria (così, Cons. Stato, Sez. IV, 12 aprile 2011, n. 2276).
Tanto potrà  avvenire, a esempio, attraverso la formula del consorzio tra i privati lottizzanti finalizzato, oltre al resto, all’obiettivo di conseguire delle economie di scala rispetto agli oneri di urbanizzazione dovuti ex lege, mercè la predisposizione di apposita procedura concorsuale e la selezione della migliore offerta per l’esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria; la costituzione dei consorzi tra i proprietari attraverso un modulo consensuale garantito da apposita convenzione, rappresenta, infatti, ancor oggi la modalità  attraverso cui il Comune può ottenere l’infrastrutturazione dell’area interessata dal piano urbanistico senza dover fare ricorso a procedure ablatorie.
Segue: disposizioni residuali.
L’art. 45, comma 2, sostituisce, infine, l’art. 52, comma 2, D.P.R. n. 380/2001 (norme tecniche per le costruzioni pubbliche e private), prevedendo che qualora vengano usati materiali o sistemi costruttivi diversi da quelli disciplinati dalle norme tecniche in vigore, la loro idoneità  deve essere comprovata con una dichiarazione rilasciata dal Presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici su conforme parere dello stesso Consiglio.

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