Risarcimento del danno – ASL –  Contratto d’appalto – Riduzione autoritativa delle prestazioni contrattuali – Fattispecie  

A seguito della riduzione autoritativa del 30% (in relazione ai c.d. tetti di spesa), operata dal ASL, sul  budget annuale di un contratto per il servizio di assistenza domiciliare, mentre è dovuto all’appaltatrice il risarcimento da perdita della commessa (costi e ricavi risultanti dalle fatture emesse), dev’essere invece respinta l’ulteriore domanda risarcitoria per il mancato utile, considerato che  il risultato raggiungibile dalla società  in caso di corretto esercizio del  potere discrezionale al più poteva essere legato ad una rinegoziazione (consensuale) delle prestazioni poste a carico dell’impresa (e considerato che, ha aggiunto nella specie il TAR,  la stessa somma posta a base d’asta era stata espressamente dichiarata come solamente presuntiva ed indicativa).

Pubblicato il 21/06/2018
N. 00915/2018 REG.PROV.COLL.
N. 00112/2018 REG.RIC.
N. 00183/2010 REG.RIC.
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 112 del 2018, proposto da 
Servizi Multipli Integrati Società  Cooperativa Sociale, rappresentata e difesa dagli avvocati Emilio Toma, Loredana Papa, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio della seconda in Bari, Via M. di Montrone, 60 

contro
Asl Foggia, rappresentata e difesa dall’avvocato Antonio Biscotti, con domicilio eletto in Bari, presso la Segreteria del TAR



sul ricorso numero di registro generale 183 del 2010, proposto da 
Servizi Multipli Integrati Società  Cooperativa Sociale, rappresentata e difesa dagli avvocati Emilio Toma, Loredana Papa, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio della seconda in Bari, Via M. di Montrone, 60

contro
Azienda Sanitaria Locale Foggia, rappresentata e difesa dall’avvocato Antonio Biscotti, con domicilio eletto in Bari, presso la Segreteria del TAR

per la condanna
dell’Azienda sanitaria locale di Foggia al risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell’adozione di due provvedimenti impugnati nel giudizio definito con sentenza del TAR Puglia – Bari n. 1671 dell’8 giugno 2006: domanda proposta con il ricorso RG 183/2010 e – a seguito di accoglimento, con sentenza del Consiglio di Stato n. 5036 del 31 ottobre 2017, del ricorso in appello avverso la sentenza del TAR Puglia – Bari n. 1252 del 28 ottobre 2016 – riassunto con ricorso RG 112/2018.
 

Visti i ricorsi e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Azienda Sanitaria Locale Foggia;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 23 maggio 2018 il dott. Angelo Fanizza e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
 

FATTO e DIRITTO
Con ricorso ritualmente proposto la società  Servizi Multipli Integrati Società  Cooperativa Sociale (già  Servizi Multipli Integrati Soc. Coop.) ha chiesto la condanna dell’ASL di Foggia al risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell’adozione di due provvedimenti impugnati nel giudizio definito con sentenza n. 1671 dell’8 giugno 2006, con cui questo Tribunale ha, in particolare, annullato la determinazione del Direttore generale dell’ASL n. 953 del 22 gennaio 2003 (con cui era stata disposta una riduzione nella misura del 30% del tetto di spesa previsto per l’anno 2003 per le cooperative aggiudicatarie del servizio di assistenza domiciliare) e la deliberazione del Direttore generale n. 69 dell’8 gennaio 2003 (censurata nella parte in cui aveva disposto la gestione diretta delle unità  di valutazione multidimensionale su base distrettuale e con la previsione di un diverso procedimento di autorizzazione dei programmi di assistenza domiciliare).
Nell’odierno giudizio la ricorrente ha evidenziato che “nella fattispecie l’autoritativa (e peraltro ingiustificata) modificazione dell’elemento prezzo fissato dal contratto in essere tra la ricorrente e la ASL e delle modalità  di svolgimento del servizio è stata ritenuta illegittima proprio perchè ha inciso negativamente sulla posizione della ricorrente, che confidava ragionevolmente nell’osservanza, da parte della ASL, delle clausole del contratto stipulato a seguito di aggiudicazione di una gara ad evidenza pubblica” (cfr. pag. 10); ha, quindi, specificato i danni subiti nei seguenti termini:
a) “mancato utile stimato di commessa”, quantificato in € 152.244,98 e derivante “dalla regolare esecuzione del servizio oggetto di appalto ed in conformità  alle previsioni contrattuali (¦) per il periodo dal 2003 (anno in cui è intervenuta la riduzione del budget) al 2006 (anno di naturale scadenza del contratto)” (cfr. pag. 12);
b) “perdita effettiva di commessa”, quantificata in € 141.840,24, causata “dalla illiceità  dell’azione amministrativa posta in essere dalla ASL (¦) per il periodo dal 2003 (anno in cui è intervenuta la riduzione del budget) al 2006 (anno di naturale scadenza del contratto)” (cfr. pag. 13);
c) “interessi ed oneri finanziari”, quantificati in € 110.037,00 e fondati sull’assunto secondo cui “per far fronte agli impegni assunti con la stipulazione del contratto de quo la società  ricorrente ha dovuto richiedere ed utilizzare fidi bancari per importi necessari alla regolare esecuzione del servizio nei termini contrattuali” (cfr. pag. 14).
Oltre a tale danno, commisurato in € 404.122,18, la ricorrente ha chiesto il risarcimento dei “danni collaterali sopportati (danno per mancata possibilità  di utilizzare il maggiore fatturato conseguibile per la partecipazione a successive gare di appalto e conseguentemente il danno all’immagine) nonchè i proventi realizzabili con l’investimento degli utili stimati, la cui determinazione viene lasciata all’equa valutazione del Giudice adito; oltre alle spese occorse per la redazione della consulenza tecnico-contabile” sulla scorta della quale i citati danni sono stati dettagliati.
Con sentenza n. 1252 del 28 ottobre 2016 la Sezione ha dichiarato inammissibile il ricorso per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
Nondimeno, in accoglimento del ricorso in appello proposto dalla ricorrente, con sentenza n. 5036 del 31 ottobre 2017 la Sezione III del Consiglio di Stato ha annullato la pronuncia di primo grado ai sensi dell’art. 105 del codice del processo amministrativo.
Pertanto, con ricorso in riassunzione depositato il 25 gennaio 2018 ed iscritto al R.G. 112/2018 la società  Servizi Multipli Integrati Società  Cooperativa Sociale ha chiesto la condanna della “ASL FG, già  ASL FG/1, in persona del Direttore Generale pro-tempore, al risarcimento dei danni e al loro pagamento oltre interessi e rivalutazione come per legge sino all’effettivo soddisfo”, nei sensi sopra illustrati. Ha, altresì, chiesto, in data 1.2.2018, la riunione di tale giudizio a quello iscritto al RG 183/2010.
Si è costituita, in tale giudizio, l’ASL di Foggia (20.4.2018).
Nel contempo, nell’ambito del pendente giudizio R.G. 183/2010:
– la società  ricorrente ha ribadito, nella memoria del 20.4.2018, che “è (¦) indubbia la violazione da parte dell’Asl dei principi fondamentali ed indiscussi di tutela del legittimo affidamento del privato nella specie, peraltro, graniticamente fondato sull’esistenza del contratto; di correttezza dell’azione amministrativa che, impone che la P.A., ove ritenga di garantire l’interesse pubblico con un assetto differente da quello già  determinato, debba farlo utilizzando, correttamente, gli strumenti dell’autotutela, ovvero della modifica consensuale delle condizioni contrattuali (ove come nel caso di specie vi sia in corso un rapporto contrattuale) e giammai attraverso una modifica immotivata ed ingiustificata, autoritativa ed unilaterale delle condizioni contrattuali efficaci e vincolanti per entrambe le parti” (cfr. pag. 9);
– l’ASL, nella memoria del 21.4.2018, ha opposto che “sarebbe stato onere della ricorrente provare la sussistenza di un danno ingiusto, del nesso causale tra condotta ed evento, e della colpa o del dolo dell’Asl FG/1. Sarebbe stato, successivamente, onere dell’Asl FG/1 fornire elementi di giudizio idonei a dimostrare l’assenza di dolo o colpa grave, nonostante l’accertata illegittimità  della propria condotta. Allo stato degli atti, la ricorrente non ha adempiuto all’onere su di essa incombente” (cfr. pag. 4); a ciò ha soggiunto che i richiesti danni, “per ogni singola voce di danno richiesta dalla ricorrente, sono qui fermamente contestati poichè esagerati nella loro quantificazione oltre che effettuati arbitrariamente ed in assenza di qualsivoglia contraddittorio tra le parti e perciò privi di ogni efficacia giuridica e probatoria” (cfr. pag. 7).
All’udienza pubblica del 23 maggio 2018 entrambe le cause sono state trattenute in decisione.
Preliminarmente, va disposta la riunione dei giudizi ai sensi dell’art. 70 del codice del processo amministrativo, sia per connessione oggettiva e soggettiva, sia in ragione del fatto che la proposizione del giudizio R.G. 112/2018 è stata originata dalla riassunzione conseguente al rinvio al primo giudice disposto dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 5036/2017 ai sensi dell’art. 105 del codice del processo amministrativo.
Nel merito, il ricorso è fondato e va, pertanto, accolto nei limiti di seguito precisati.
Con riguardo alla fondatezza della proposta domanda risarcitoria, occorre anzitutto richiamare il principio espresso dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea nella sentenza 30 settembre 2010, n. C – 314/09 (secondo cui “il diritto ad ottenere un risarcimento a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un’amministrazione aggiudicatrice” non è subordinato alla verifica circa il “carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l’applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all’amministrazione suddetta, nonchè sull’impossibilità  per quest’ultima di far valere la mancanza di proprie capacità  individuali e, dunque, un difetto di imputabilità  soggettiva della violazione lamentata”), restando, ad ogni modo, impregiudicata per il giudice amministrativo la piena valutazione di tutti i fatti rilevanti ai fini della corretta quantificazione del risarcimento.
Alla luce della giurisprudenza comunitaria non è, dunque, necessaria la dimostrazione dell’elemento soggettivo della colpa della stazione appaltante nelle ipotesi di responsabilità  civile in materia di appalti pubblici: un indirizzo, peraltro, condiviso dalla giurisprudenza maggioritaria (cfr. sul punto, fra le tante, Consiglio di Stato, sez. IV, 31 gennaio 2012, n. 482; TAR Lombardia – Milano, 23 maggio 2013, n. 1367).
Come, infatti, ha statuito il Consiglio di Stato (sez. V, 8 novembre 2012, n. 5686, richiamata in id., 27 marzo 2013, n. 1833):
– “la disciplina comunitaria della concorrenza è rivolta, infatti, essenzialmente alla tutela delle posizioni soggettive delle imprese, cui dovrebbe corrispondere in capo alla pubblica Amministrazione l’obbligo di tenere un corretto comportamento verso i concorrenti alle gare pubbliche”;
– “l’ordinamento comunitario dimostra che ciò che rileva è l’ingiustizia del danno e non l’elemento della colpevolezza; ciò determina ipso facto la creazione di un diritto amministrativo comune a tutti gli Stati membri nel quale i principi che si elaborano a livello comunitario, in applicazione dei Trattati, trovano humus negli ordinamenti interni, e costituiscono una sorta di sussunzione unificante di regole riscontrabili in tali ordinamenti. In questo processo di astrazione è inevitabile che i principi di diritto interno vengano sostituiti da principi caratterizzati da più larga acquisizione, poichè il ravvicinamento e l’armonizzazione normativa premia il principio maggiormente condiviso, come è quello della responsabilità  piena della P.A. senza aree di franchigia”.
Con riferimento al presupposto dell’antigiuridicità , l’operato dell’Amministrazione resistente è stato dichiarato illegittimo nella sentenza n. 1671/2006, nella quale si è statuito:
a) che il provvedimento del Direttore generale dell’ASL FG/1 n. 953 del 22 gennaio 2003 (con cui è stato comunicato che “il tetto di spesa invalicabile per il corrente anno per le cooperative aggiudicatarie del servizio di assistenza domiciliare (¦) è quello riveniente dalla gara di appalto ridotto del 30% per esigenze di natura finanziaria”), ha determinato un’illegittima “rivalutazione dell’interesse pubblico ad offrire tale tipo di assistenza”, posta in essere in violazione dei principi del giusto procedimento. In particolare, “il provvedimento non avrebbe potuto (¦) ignorare il legittimo affidamento della ricorrente (la quale era obbligata ad impegnare un determinato numero di addetti, calcolato sulla base del volume presuntivo delle prestazioni, posto a base d’asta), graniticamente fondato sull’esistenza del contratto, e quindi avrebbe dovuto comunque tenere in conto le conseguenze economiche per l’ASL di un recesso parziale, il quale avrebbe potuto comportare o la necessità  della indizione di una nuova gara ovvero la rinegoziazione (consensuale) delle clausole contrattuali”. La lesione si è, dunque, sostanziata in una “determinazione unilaterale del c.d. tetto di spesa, in quanto atto privo di una congrua istruttoria e di una sufficiente e pertinente motivazione”;
b) che la deliberazione del Direttore generale n. 69 dell’8 gennaio 2003 (con cui si è stabilito di “costituire nella sede di ogni distretto sanitario di base, anche nel rispetto della normativa vigente, l’unità  di valutazione multidimensionale (U.V.M.), a gestione diretta”) è stata dichiarata illegittima in quanto “l’Azienda non ha considerato nè l’incidenza dell’atto sull’assetto organizzativo della cooperativa, specie sul cosiddetto “punto di ascolto”, nè il pregnante significato che assumeva il meccanismo di autorizzazione delle prestazioni di assistenza domiciliare, nella parte in cui coinvolgeva direttamente la cooperativa erogatrice. Invero, non avendo la ASL ritenuto di operare una precisa rilevazione del fabbisogno sul territorio e avendo perciò rinviato la puntuale determinazione dei corrispettivi alla quantificazione delle prestazioni effettivamente svolte, la decisione di selezionare le richieste di accesso all’assistenza domiciliare, estromettendo completamente la cooperativa, comporta un iter d’individuazione delle prestazioni e delle controprestazioni del tutto sottratto alla verifica della ricorrente. Tale verifica invece, per i motivi anzidetti, deve reputarsi intenzionalmente compresa nel disegno complessivo dell’operazione, come impostato dagli atti di gara e dal contratto”.
Quanto alla sussistenza (necessaria) di un nesso causale tra i provvedimenti annullati dalla sentenza n. 1671/2006 e i danni lamentati dalla ricorrente, occorre considerare che tale presupposto sembra consolidarsi in maniera oggettiva soltanto con riguardo alla determinazione del Direttore generale dell’ASL n. 953 del 22 gennaio 2003, tenuto conto che la riduzione (nella misura del 30%) del tetto di spesa previsto per l’anno 2003 si è, per un verso, tradotta in un’unilaterale rimodulazione del quadro economico, e, soprattutto, del margine di utile originariamente programmato dalla ricorrente.
Considerazione analoghe non possono, invece, estendersi alla deliberazione n. 69/2003, in merito alla quale il pregiudizio per la ricorrente è stato ricondotto alla compromissione delle (sole) prerogative di partecipazione procedimentale, queste ultime, invero, negate già  in occasione dell’emissione della prima determinazione (eloquente, sul punto, il riferimento – nella sopra citata sentenza – alla decisiva mancanza di una “congrua istruttoria e di una sufficiente e pertinente motivazione”).
Venendo, a questo, punto all’individuazione del danno risarcibile e alla cognizione sulle diverse specificazioni operate dalla ricorrente, il Collegio ritiene, in prima battuta, che non sia riconoscibile la voce relativa alla perdita dell’utile (quantificata in € 152.224,98), come peraltro evidenziato nella sentenza n. 1252/2016, in cui la Sezione ha rilevato la mancata “prova che il corretto esercizio del potere avrebbe presumibilmente implicato l’intangibilità  della sua aspirazione a conseguire tutto l’utile d’impresa conseguibile in base all’esecuzione del contratto, alla stregua del volume delle prestazioni originariamente previsto”, a ciò soggiungendo l’impossibilità  di configurare una siffatta prognosi, “atteso che, come emerge dalla parte motiva della sentenza n. 1671/2006, il risultato utile raggiungibile dalla società  in caso di corretto esercizio di un potere discrezionale – che nella specie comunque è assunto come sussistente in capo alla P.A. – al più poteva essere legato ad una rinegoziazione (consensuale) delle prestazioni poste a carico dell’impresa (¦) ed anche considerato che la stessa somma posta a base d’asta era stata espressamente dichiarata come solamente presuntiva ed indicativa”.
àˆ, di conseguenza, esclusa anche la risarcibilità  dei danni consistenti nel mancato conseguimento dei “proventi realizzabili con l’investimento degli utili stimati” (cfr. pag. 15 del ricorso).
Con riguardo, invece, alla “perdita effettiva di commessa”, quantificata in € 141.840,24 sulla base dell’articolazione pluriennale (2003 – 2006) del servizio, è infondato l’assunto secondo cui “l’autoritativo (illegittimo ed illecito per quanto già  acclarato dal Tar e dal Consiglio di Stato) ridimensionamento del servizio disposto non solo per l’anno 2003 ma anche per il successivo 2004, come risulta espressamente dal verbale della riunione tra ricorrente, Asl e rappresentanti delle associazioni sindacali del 26.11.2003 (¦) è stato confermato anche per il 2005 e fino al gennaio 2006 data di scadenza del contratto”: e ciò – ha proseguito la ricorrente – in quanto “nel suddetto verbale del 26.11.2003 si legge espressamente che il direttore sanitario conferma che il budget assegnato per il 2003 (ossia quello ridotto illegittimamente) sarà  confermato anche per il 2004”, mentre – per quanto concerne il periodo dal 2005 fino al mese di gennaio 2006, data in cui l’appalto è cessato per naturale scadenza del contratto – la prova sarebbe stata integrata dalle risultanze della consulenza tecnica e dei documenti allegati in atti (cfr. pag. 12 della memoria del 20.4.2018).
All’opposto, nella sentenza n. 1252/2016 si è dato atto che “con Determina n. 953/2003 fosse stata prevista una riduzione del 30 per cento del budget per il Servizio di assistenza domiciliare, limitatamente al solo anno in corso (2003)”: statuizione che il Collegio reputa di confermare integralmente alla luce del fatto che il dedotto e persistente ridimensionamento della dotazione finanziaria è sconfessato sia dalla motivazione dell’impugnato provvedimento (“tetto di spesa (¦) fissato per il corrente anno”) sia, ancor più, dalla pacifica circostanza che l’ASL resistente non ha adottato alcun atto di natura neppure simile nei tempi successivi.
Il che, però, evidenzia – a contrario – la spettanza del risarcimento per l’anno 2003, nella misura determinata in € 92.211,19, riveniente dalla differenza tra:
a) il costo complessivo di commessa (€ 374.924,07), ossia della sommatoria tra il costo degli operatori (€ 336.511,48), delle spese generali (€ 28.271,29) e dell’IRAP (€ 10.141,30);
b) il ricavo effettivo di commessa (€ 282.721,88), risultante dalle fatture emesse dalla ricorrente all’ASL FG/1.
Le precise elaborazioni della ricorrente sono state contestate in maniera del tutto generica, e come tale inattendibile, dalla resistente.
Su tali somme spettano gli interessi legali, o meglio gli interessi corrispettivi fondati sulla naturale fecondità  del denaro, e che prescindono, pertanto, dai profili di colpa pure dedotti dalla società  ricorrente.
Con riguardo alla decorrenza, trattandosi di crediti liquidi ed esigibili, si dovrà  tenere conto dei singoli momenti di pagamento delle fatture relative all’anno 2003.
Non è, invece, dovuta la rivalutazione monetaria.
In linea generale, occorre considerare che le sezioni unite della Corte di Cassazione hanno statuito che il creditore di una obbligazione di valuta, il quale intenda ottenere il ristoro del pregiudizio da svalutazione monetaria, ha l’onere di domandare il risarcimento del “maggior danno” ai sensi dell’art. 1224 c.c., comma 2, e non può limitarsi a domandare semplicemente la condanna del debitore al pagamento del capitale e della rivalutazione, non essendo quest’ultima una conseguenza automatica del ritardato adempimento delle obbligazioni di valuta (SS.UU., sentenza n. 5743 del 23/03/2015); e che, nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione di valuta, “il maggior danno di cui all’art. 1224, secondo comma, cod. civ. può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali, fermo restando l’onere del creditore – che domanda, a titolo di risarcimento del maggior danno, una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio di rendimento dei titoli di Stato – di provare l’esistenza e l’ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva (SS.UU., sentenza n. 19499 del 16/07/2008)” (cfr. Corte di Cassazione, sez. II civile, 5 novembre 2015, n. 22664).
Nella specie, però, la prova del maggior danno non è stata allegata.
Il Collegio non ignora che il dibattito su tale questione ha registrato posizioni di apertura della giurisprudenza (cfr. Corte di Cassazione, sez. I, 26 settembre 2013, n. 22096, incentrata sulla figura dell’imprenditore commerciale) sulla possibile sufficienza di una prova presuntiva che avrebbe dovuto segnare il superamento sia della più risalente impostazione fondata su un regime probatorio che difficilmente consentiva di ammettere la deroga alla presunzione iuris et de iure del danno pari all’interesse legale (cfr. Corte di Cassazione, 12 dicembre 1978, n. 5895), sia dell’orientamento, diametralmente opposto, favorevole alla “prova automatica” del maggior danno, cioè, in altri termini, all’avallo di una petizione di principio.
Nella giurisprudenza della Suprema Corte si è, tuttavia, fatta strada una diversa opzione ermeneutica, secondo cui “ove il creditore abbia la qualità  di imprenditore, avrà  l’onere di dimostrare o di avere fatto ricorso al credito bancario sostenendone i relativi interessi passivi; ovvero – attraverso la produzione dei bilanci – quale fosse la produttività  della propria impresa, per le somme in essa investite; il debitore, dal canto suo, avrà  invece l’onere di dimostrare, anche attraverso presunzioni semplici, che il creditore, in caso di tempestivo adempimento, non avrebbe potuto impiegare il denaro dovutogli in forme di investimento che gli avrebbero garantito un rendimento superiore al saggio legale” (cfr. Corte di Cassazione, sez. I, 24 gennaio 2014, n. 1506).
In sostanza, vi è stato un alleggerimento dell’onere probatorio sul piano dell’an, non essendo imposto all’imprenditore commerciale di fornire una prova specifica del danno, causalmente ricollegabile alla svalutazione. Ma l’ausilio derivante dalla matrice presuntiva non può, però, tradursi, ad avviso del Collegio, nell’elusione di una puntuale indicazione sulle modalità  di formazione del quantum del pregiudizio: diversamente opinando, si rischierebbe, infatti, di impropriamente assimilare le obbligazioni di valuta a quelle di valore.
Sotto tale profilo, le deduzioni e le allegazioni probatorie della società  ricorrente sono state inconsistenti, non potendosi ritenere sostanziato il predetto presupposto probatorio da una quantificazione (€ 110.037.00) che sarebbe il risultato “desunto dai bilanci aziendali” (cfr. pag. 14 del ricorso).
Pure infondata è, infine, la domanda di risarcimento dei “danni collaterali” (danno per mancata possibilità  di utilizzare il maggiore fatturato conseguibile per la partecipazione a successive gare di appalto e conseguentemente danno all’immagine).
In ordine al danno curriculare e di immagine la giurisprudenza (cfr., tra le prime pronunce, Consiglio di Stato, sez. VI, 9 giugno 2008, n. 2751; nei medesimi termini id., 1 febbraio 2013, n. 633) ha osservato:
– che “non è seriamente dubitabile, invero, che il fatto stesso di eseguire un appalto pubblico (anche a prescindere dal lucro che l’impresa ne ricava grazie al corrispettivo pagato dalla stazione appaltante), possa essere comunque fonte per l’impresa di un vantaggio economicamente valutabile, perchè accresce la capacità  di competere sul mercato e quindi la chance di aggiudicarsi ulteriori e futuri appalti”;
– che “l’interesse alla vittoria di un appalto, nella vita di un’impresa, va, invero, ben oltre l’interesse all’esecuzione dell’opera in sè, e al relativo incasso. Alla mancata esecuzione di un’opera appaltata si ricollegano, infatti, indiretti nocumenti all’immagine della società  ed al suo radicamento nel mercato, per non dire del potenziamento di imprese concorrenti che operino su medesimo target di mercato, in modo illegittimo dichiarate aggiudicatarie della gara”;
– che “deve ammettersi che l’impresa illegittimamente privata dell’esecuzione di un appalto possa rivendicare a titolo di lucro cessante anche la perdita della possibilità  di arricchire il proprio curriculum professionale”.
Nella specie risulta incontestato, ai sensi dell’art. 64, comma 2 del codice del processo amministrativo, che la ricorrente si è aggiudicata l’appalto e lo ha eseguito, sebbene nelle particolari condizioni che hanno determinato la proposizione del giudizio definito con la sentenza n. 1671/2006.
Parimenti da respingere è la domanda di risarcimento delle spese sostenute per la consulenza tecnica di parte, trattandosi di oneri ascrivibili all’esercizio dell’attività  giurisdizionale.
In conclusione, il ricorso va accolto, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione.
La novità  delle questioni trattate giustifica l’integrale compensazione delle spese processuali.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei sensi e nei limiti di cui in motivazione.
Spese compensate
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità  amministrativa.
Così deciso in Bari nella camera di consiglio del giorno 23 maggio 2018 con l’intervento dei magistrati:
 
 
Angelo Scafuri, Presidente
Desirèe Zonno, Consigliere
Angelo Fanizza, Primo Referendario, Estensore
 
 
 
 

 
 
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Angelo Fanizza Angelo Scafuri
 
 
 
 
 

IL SEGRETARIO

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