1. Risarcimento del danno – Domanda – Pregiudizialità  della domanda di annullamento – Non sussiste
2. Risarcimento del danno – Domanda – Mancata impugnazione dell’atto lesivo – Rilevanza ai sensi dell’art. 1127 c.c.
3. Contratti pubblici – Gara – Aggiudicazione definitiva – Revoca –  Responsabilità  per lesione di interesse legittimo e precontrattuale della p.A. – Concorso
4. Risarcimento del danno – Contratti pubblici – Revoca dell’aggiudicazione – Responsabilità  precontrattuale della P.A. – Risarcimento del danno – Presupposti
5. Risarcimento del danno – Contratti pubblici – Revoca dell’aggiudicazione – Responsabilità  precontrattuale della P.A. – Risarcimento del c.d. interesse negativo – Valutazione equitativa

1. L’azione di condanna al risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi può essere proposta in sede giudiziale anche in via autonoma ai sensi dell’art. 30 del c.p.a., sussistendo un’oggettiva autonomia processuale tra rimedio impugnatorio e domanda di risarcimento.
2. Pur non sussistendo alcuna pregiudizialità  in rito tra domanda di annullamento e domanda di risarcimento, l’omessa impugnazione dell’atto lesivo costituisce fatto valutabile al fine di escludere la risarcibilità  solo dei danni che – secondo un giudizio causale di tipo ipotetico e stante l’obbligo generale del creditore di adoperarsi per evitare l’aggravarsi del danno nei limiti del proprio apprezzabile sacrificio – sarebbero stati presumibilmente evitati in caso di tempestiva reazione processuale attraverso il rimedio impugnatorio.
3. In seno a un procedimento di evidenza pubblica può configurarsi, accanto a una responsabilità  civile per lesione di interessi legittimi, derivante dall’illegittimità  degli atti o dei provvedimenti relativi al procedimento di scelta del contraente, una responsabilità  di tipo precontrattuale per violazione di norme imperative che pongono “regole di condotta” da osservarsi durante l’intero svolgimento della procedura di evidenza pubblica.
4. àˆ  fondata la domanda di risarcimento del danno per responsabilità  precontrattuale a fronte di un comportamento della p.A. che, attraverso l’adozione di atti e provvedimenti contraddittori e privi di adeguata giustificazione, ingeneri una legittima aspettativa circa l’aggiudicazione definitiva di una gara e la stipula di un contratto.
5. La risarcibilità  del danno conseguente a responsabilità  precontrattuale è limitata al c.d. interesse negativo, comprensivo sia del danno emergente che del lucro cessante, ma con esclusione del mancato guadagno che sarebbe derivato dalla stipulazione ed esecuzione del contratto. Il danno risarcibile, ricorrendo particolari circostanze, può essere valutato anche in via equitativa e forfetaria in misura pari al 10% dell’importo della commessa.

N. 00340/2016 REG.PROV.COLL.
N. 01651/2009 REG.RIC.
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1651 del 2009, proposto da:
Egepu S.r.l., rappresentata e difesa dagli avv.ti Antonello Bruno e Luciano Dalfino, con domicilio eletto presso Luciano Dalfino, in Bari, Via Andrea da Bari, 157;

contro
Comune di Apricena, rappresentato e difeso dall’avv. Raffaele De Vitto, con domicilio eletto presso Rosa Cerabino, in Bari, Via Melo da Bari, 141;

per il risarcimento
dei danni subiti dalla società  ricorrente in conseguenza del comportamento tenuto dal Comune di Apricena (Fg) in relazione alla revoca dell’affidamento del servizio trasporto disabili, disposto con atto di indirizzo di cui alla deliberazione di Giunta Municipale n. 39 del 19.2.2009 e con la determinazione in data 26.2.2009 del Segretario Generale, in qualità  di Responsabile del Servizio;
nonchè
per la condanna agli accessori del credito ed alle spese e competenze di lite.
 

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Apricena;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 27 gennaio 2016 il dott. Alfredo Giuseppe Allegretta e uditi per le parti i difensori avv.ti Antonello Bruno e Michele Barbato, per delega dell’avv. Raffaele De Vitto;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
 

FATTO e DIRITTO
Con ricorso notificato il 13.10.2009 e depositato in Segreteria il 24.10.2009, la società  Egepu S.r.l. adiva il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, Sede di Bari, al fine di ottenere la pronuncia risarcitoria meglio indicata in oggetto.
Esponeva in fatto che, con bando di gara in data 26.11.2008, il Comune di Apricena (Fg) indiceva un pubblico incanto per l’affidamento del servizio di trasporto disabili nel periodo dall’1.1.2009 al 31.12.2009, ai sensi dell’art. 55, comma 5, del D.Lgs. n. 163/2006.
In particolare, il servizio contemplava il trasporto dei disabili dalle proprie abitazioni al Centro di riabilitazione motoria “L’Aquilone” di Apricena e viceversa, dal lunedì al venerdì, ed il trasporto dei disabili dalle proprie abitazioni al Centro Diurno Comunale “La Ninfea” e viceversa, dal lunedì al venerdì, oltre al trasporto, nella sola giornata del sabato, dei disabili che frequentavano la scuola dell’obbligo.
Il corrispettivo veniva fissato in un totale su base annua di euro 66.000,00, oltre I.V.A..
Presentavano domanda di partecipazione quattro ditte, fra cui la ricorrente.
All’esito delle procedure di gara, la ricorrente medesima risultava essere la migliore offerente, vedendosi, di conseguenza, aggiudicare la gara in via provvisoria.
All’esito di una fase intermedia di verifica di taluni aspetti di merito dell’offerta, con provvedimento del 21.1.2009, il Capo Settore AA.GG. del Comune di Apricena dava corso all’aggiudicazione definitiva del servizio appaltato in favore di Egepu S.r.l., prescrivendo di dare corso all’espletamento del servizio a far data dal 30.1.2009, anche in via provvisoria, nelle more della stipulazione e registrazione del relativo contratto d’appalto.
Evidenziava, tuttavia, la ricorrente che, con nota del 27.1.2009, il Comune di Apricena comunicava alla società  ricorrente un differimento di dieci giorni dell’inizio della prestazione del servizio, successivamente seguito da ulteriori differimenti.
In tesi di parte ricorrente, le vere ragioni di tali differimenti erano da ravvisare in “pressioni che hanno assunto connotati ai limiti del lecito allorchè, con messaggio di posta elettronica in data 6.2.2009, l’Assessore Tommaso Pasqua ha intimato ad Elia Rocco, collaboratore della Egepu S.r.l.” di predisporre due contratti “full time” ed un contratto “part time” per l’assunzione di personale presso di essa al fine di poter espletare il servizio (cfr. pagg. 3 e 4 del ricorso introduttivo).
A fronte dell’opposizione della società  ricorrente a procedere alla assunzioni in questione, con deliberazione n. 39 del 19.2.2009 la Giunta Comunale formulava atto di indirizzo al responsabile unico del procedimento di gara al fine di procedere alla revoca dell’affidamento operato in favore della Egepu S.r.l..
Con determinazione in data 26.2.2009, il Segretario Generale, nella qualità  di responsabile del servizio, dava corso alla revoca dell’affidamento in questione, contestualmente comunicando la decisione dell’Ente di procedere alla gestione diretta del medesimo.
Con successive delibere nn. 93 del 12.3.2009 e 102 del 26.3.2009, la Giunta Comunale integrava la delibera di revoca dell’affidamento dell’appalto, precisando che le motivazioni della revoca erano altresì determinate dal fatto che trattavasi di un servizio di ambito, per cui la titolarità  dell’effettuazione della relativa prestazione faceva capo a quest’ultimo organismo e non al Comune, stabilendo altresì di indire la relativa gara, poi successivamente espletata.
Avverso tali esiti provvedimentali, la società  Egepu S.r.l. insorgeva impugnando in separato e precedente giudizio la deliberazione di Giunta Municipale n. 39 del 19.2.2009 e la determinazione gestionale di revoca dell’affidamento del Segretario Generale – Responsabile del Servizio in data 26.2.2009.
Tale procedimento si concludeva con la sentenza n. 1072/2009 del T.A.R. in epigrafe, con cui il ricorso impugnatorio per l’annullamento dei detti provvedimenti veniva dichiarato irricevibile per tardività  della notifica.
Nel presente procedimento, la società  ricorrente proponeva invece domanda risarcitoria autonoma, anche in difetto di accertamento giudiziale in via principale dell’illegittimità  del provvedimento assunto come lesivo.
Con memoria di costituzione pervenuta in Segreteria in data 4.12.2009, si costituiva in giudizio il Comune di Apricena, instando per la reiezione del ricorso, in quanto inammissibile, improcedibile e comunque infondato.
All’udienza pubblica del 27.1.2016, la causa era definitivamente trattenuta in decisione.
Tutto ciò premesso, il ricorso è fondato nel merito è, pertanto, può essere accolto.
Con il ricorso in esame parte ricorrente reclama il risarcimento dei danni subiti in conseguenza della revoca dell’affidamento del servizio trasporto disabili, disposto con atto di indirizzo di cui alla deliberazione di Giunta Municipale n. 39 del 19.2.2009 e con la determinazione in data 26.2.2009 del Segretario Generale, in qualità  di Responsabile del Servizio.
Con riguardo alla vicenda in oggetto, il Collegio ritiene di prendere le mosse dalla nota sentenza 22 luglio 1999, n. 500, con la quale le Sezioni Unite della Corte di Cassazione riconobbero in via generale l’ammissibilità  della tutela risarcitoria degli interessi legittimi.
Come è noto, l’art. 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205, nel novellare l’art. 7, comma 3, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, stabilì successivamente che, in tali casi, la tutela risarcitoria andava richiesta al Giudice Amministrativo, atteggiandosi a “strumento di tutela ulteriore rispetto a quello classico demolitorio” (cfr. Sentenze 6 luglio 2004, n. 204 e 11 maggio 2006, n. 191 della Corte Costituzionale).
In questo quadro, l’elaborazione delle condizioni, processuali e sostanziali, che governano la tutela risarcitoria degli interessi legittimi è stata posta al centro di un vivace dibattito giurisprudenziale e dottrinale.
E’ stato, in particolare, oggetto di approfondita analisi il tema della pregiudizialità  della domanda di annullamento rispetto all’azione di danno.
A favore della tesi dell’autonomia delle due azioni si è pronunciata la Cassazione a Sezioni unite la quale, con ordinanze nn. 13659 e 13660 del 13 giugno 2006, rese in sede di regolamento di giurisdizione, affermava che la domanda di risarcimento potesse essere proposta innanzi al Giudice Amministrativo anche in difetto della previa domanda di annullamento dell’atto lesivo, per cui una declaratoria di inammissibilità  della domanda risarcitoria, motivata solo in ragione della mancata previa impugnazione dell’atto, concretizzava diniego della giurisdizione sindacabile da parte della Corte di Cassazione ex artt. 360, comma 1, n. 1 e 362 c.p.c..
Detta conclusione veniva ribadita dalle Sezioni Unite con le sentenze 23 dicembre 2008, n. 30254, 6 settembre 2010, n. 19048, 16 dicembre 2010, n. 23595 e 11 gennaio 2011, n. 405.
Detta ultima pronuncia, peraltro, puntualizzava che il diniego di giurisdizione che consente il sindacato della Cassazione è riscontrabile nelle sole ipotesi in cui il Consiglio di Stato neghi la tutela risarcitoria per il solo fatto della mancata impugnazione del provvedimento amministrativo e non anche in quelle in cui il Giudice Amministrativo pervenga ad una pronuncia sfavorevole di merito in ragione della valutazione in ordine all’assenza, in concreto, dei presupposti sostanziali a tal fine necessari.
Con la decisione dell’Adunanza plenaria 22 ottobre 2007, n. 12, il Consiglio di Stato, invece, confermava il principio della pregiudizialità  della domanda di annullamento rispetto alla tutela risarcitoria, già  espresso dall’Adunanza plenaria con la decisione n. 4 del 2003.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. n.3/2011) che in questa sede si ritiene di condividere, va evidenziato che, nell’ambito della disciplina dettata dal codice del processo amministrativo di cui all’allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, entrato in vigore il 16 settembre 2010, l’art. 30 del Codice ha previsto, ai fini che qui rilevano, che l’azione di condanna al risarcimento del danno può essere proposta in via autonoma (comma 1) entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato, ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo (comma 3, primo periodo).
La norma, da leggere in combinazione con il disposto del comma 4 dell’art. 7 – il cui inciso finale prevede la possibilità  che le domande risarcitorie aventi ad oggetto il danno da lesione di interessi legittimi e di altri diritti patrimoniali consequenziali siano introdotte in via autonoma – sancisce, dunque, l’autonomia, sul versante processuale, della domanda di risarcimento rispetto al rimedio impugnatorio.
Detta autonomia è confermata, per un verso, dall’art. 34, comma 2, secondo periodo, che considera il giudizio risarcitorio quale eccezione al generale divieto, per il Giudice Amministrativo, di conoscere della legittimità  di atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l’azione di annullamento; e, per altro verso, dal comma 3 dello stesso art. 34, che consente l’accertamento dell’illegittimità  a fini meramente risarcitori allorquando la pronuncia costitutiva di annullamento non risulti più utile per il ricorrente.
Questo reticolo normativo fissa, in termini netti, la reciproca autonomia processuale tra i diversi sistemi di tutela, con l’affrancazione del modello risarcitorio dalla logica della necessaria “sussidiarietà ” rispetto al paradigma caducatorio.
Il riconoscimento dell’autonomia, in punto di rito, della tutela risarcitoria si inserisce – in attuazione dei principi costituzionali e comunitari in materia di pienezza ed effettività  della tutela giurisdizionale richiamati dall’art. 1 del Codice oltre che dei criteri di delega fissati dall’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n.69 – in un ordito normativo che, portando a compimento un lungo e costante processo evolutivo tracciato dal legislatore e dalla giurisprudenza, amplia le tecniche di tutela dell’interesse legittimo mediante l’introduzione del principio della pluralità  delle azioni.
Si sono, infatti, aggiunte alla tutela di annullamento la tutela di condanna (risarcitoria e reintegratoria ex art. 30), la tutela dichiarativa (cfr. l’azione di nullità  del provvedimento amministrativo ex art. 31, comma 4) e, nel rito in materia di silenzio inadempimento, l’azione di condanna pubblicistica (cd. azione di esatto adempimento) all’adozione del provvedimento, anche previo accertamento, nei casi consentiti, della fondatezza della pretesa dedotta in giudizio (art. 31, commi da 1 a 3).
Deve, inoltre, rilevarsi che il Legislatore, sia pure in maniera non esplicita, ha ritenuto esperibile, anche in presenza di un provvedimento espresso di rigetto e sempre che non vi osti la sussistenza di profili di discrezionalità  amministrativa e tecnica, l’azione di condanna volta ad ottenere l’adozione dell’atto amministrativo richiesto.
Ciò è desumibile dal combinato disposto dell’art. 30, comma 1, che fa riferimento all’azione di condanna senza una tipizzazione dei relativi contenuti (sull’atipicità  di detta azione si sofferma la stessa relazione governativa di accompagnamento al codice) e dell’art. 34, comma 1, lett. c), ove si stabilisce che la sentenza di condanna deve prescrivere l’adozione di misure idonee a tutelare la situazione soggettiva dedotta in giudizio (cfr., già  con riguardo al quadro normativo anteriore, Cons. Stato, VI, 15.4.2010, n. 2139; 9.2.2009, n. 717).
In definitiva il disegno codicistico, in coerenza con il criterio di delega fissato dall’art. 44, comma 2, lettera b, n. 4, della legge 18 giugno 2009, n. 69, ha superato la tradizionale limitazione della tutela dell’interesse legittimo al solo modello impugnatorio, ammettendo l’esperibilità  di azioni tese al conseguimento di pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa. Di qui la trasformazione del giudizio amministrativo, ove non vi si frapponga l’ostacolo dato dalla non sostituibilità  di attività  discrezionali riservate alla pubblica amministrazione, da giudizio amministrativo sull’atto, teso a vagliarne la legittimità  alla stregua dei vizi denunciati in sede di ricorso e con salvezza del riesercizio del potere amministrativo, a giudizio sul rapporto regolato dal medesimo atto, volto a scrutinare la fondatezza della pretesa sostanziale azionata.
Alla stregua di tale dilatazione delle tecniche di protezione, viene confermata e potenziata la dimensione sostanziale dell’interesse legittimo, in una con la centralità  che il bene della vita assume nella struttura di detta situazione soggettiva.
Come osservato dalle Sezioni Unite nella citata sentenza n. 500/1999, l’interesse legittimo non rileva come situazione meramente processuale, ossia quale titolo di legittimazione per la proposizione del ricorso al giudice amministrativo, nè si risolve in un mero interesse alla legittimità  dell’azione amministrativa in sè intesa, ma si rivela posizione schiettamente sostanziale, correlata, in modo intimo e inscindibile, ad un interesse materiale del titolare ad un bene della vita, la cui lesione (in termini di sacrificio o di insoddisfazione a seconda che si tratti di interesse oppositivo o pretensivo) può concretizzare un pregiudizio.
L’interesse legittimo va, quindi, inteso come la posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad un bene della vita interessato dall’esercizio del potere pubblicistico, che si compendia nell’attribuzione a tale soggetto di poteri procedimentali e processuali idonei ad influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la realizzazione o la difesa dell’interesse al bene.
In questo quadro normativo, sensibile all’esigenza di una piena protezione dell’interesse legittimo come posizione sostanziale correlata ad un bene della vita, risulta coerente che la domanda risarcitoria, ove si limiti alla richiesta di ristoro patrimoniale senza mirare alla cancellazione degli effetti prodotti del provvedimento, sia proponibile in via autonoma rispetto all’azione impugnatoria e non si atteggi più a semplice corollario di detto ultimo rimedio secondo una logica gerarchica che il codice del processo ha superato con chiarezza.
Va, peraltro, osservato che il Codice, pur negando la sussistenza di una pregiudizialità  di rito, ha mostrato di apprezzare, sul versante sostanziale, la rilevanza eziologica dell’omessa impugnazione come fatto valutabile al fine di escludere la risarcibilità  dei danni che, secondo un giudizio causale di tipo ipotetico, sarebbero stati presumibilmente evitati in caso di tempestiva reazione processuale nei confronti del provvedimento potenzialmente dannoso.
L’art. 30, comma 3, del codice dispone, infatti, al secondo periodo, che, nel determinare il risarcimento, “il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”.
La disposizione, pur non evocando in modo esplicito il disposto dell’art. 1227, comma 2, del codice civile, afferma che l’omessa attivazione degli strumenti di tutela previsti costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà , ai fini dell’esclusione o della mitigazione del danno evitabile con l’ordinaria diligenza. E tanto in una logica che vede l’omessa impugnazione non più come preclusione di rito ma come fatto da considerare in sede di merito ai fini del giudizio sulla sussistenza e consistenza del pregiudizio risarcibile.
In tale quadro non può pertanto in alcun modo condividersi una impostazione giurisprudenziale (ad es. sostenuta da Cons. Stato, Sez. V, Sentenza n. 5917 del 1.12.2014) secondo cui l’omessa o anche la solo tardiva impugnazione del provvedimento amministrativo, in tesi causativo di danno, di per sè pur non comportando una preclusione in rito dell’azione, ne determini automaticamente il suo inevitabile esito negativo nel merito, in conseguenza dell’operare in via precettiva del provvedimento amministrativo non utilmente impugnato e del consolidarsi della sua legittimità  per il mero spirare dei termini di impugnativa.
Tale ricostruzione, infatti, non fa altro che configurare l’omessa o tardiva impugnazione del provvedimento amministrativo causativo di danno come una vera e propria causa di inammissibilità  dell’azione risarcitoria – non sussistendo il prerequisito oggettivo della previa declaratoria di invalidità  o/o illegittimità  del medesimo – operando una scelta ermeneutica per una pregiudiziale amministrativa “forte”, in evidente contrasto con tutto il quadro normativo e giurisprudenziale sopra delineato ed in frontale contrapposizione con il principio di pienezza ed effettività  della tutela ex art. 1 c.p.a..
Più in generale, operando una ricognizione dei principi civilistici in tema di causalità  giuridica e di principio di auto-responsabilità , il codice del processo amministrativo sancisce la regola secondo cui la tenuta, da parte del danneggiato, di una condotta, attiva od omissiva, contraria al principio di buona fede ed al parametro della diligenza, che consenta la produzione di danni che altrimenti sarebbero stati evitati secondo il canone della causalità  civile imperniato sulla probabilità  relativa, recide, in tutto o in parte, il nesso casuale che, ai sensi dell’art. 1223 c.c., deve legare la condotta antigiuridica alle conseguenze dannose risarcibili.
Di qui la rilevanza sostanziale, sul versante prettamente causale, dell’omessa o tardiva impugnazione come fatto che preclude la risarcibilità  non di tutti i danni, ma solo di quelli che sarebbero stati presumibilmente evitati in caso di rituale utilizzazione dello strumento di tutela specifica predisposto dall’ordinamento a protezione delle posizioni di interesse legittimo, onde evitare la consolidazione di effetti dannosi realisticamente e concretamente evitabili.
Va, del pari, apprezzata l’omissione di ogni altro comportamento esigibile in quanto non eccedente la soglia del sacrificio significativo sopportabile anche dalla vittima di una condotta illecita alla stregua del canone di buona fede di cui all’art. 1175 e del principio di solidarietà  di cui all’art. 2 Cost..
La rilevanza sostanziale delle condotte negligenti, eziologicamente pregnanti, è confermata anche dall’art. 124 del codice del processo amministrativo e dell’art. 243 bis del codice dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163.
La prima disposizione sancisce, al comma 2, questa volta recando un riferimento esplicito alla normativa civilistica, che “la condotta processuale della parte che, senza giustificato motivo, non ha proposto la domanda di cui al comma 1” (ossia la domanda di conseguire l’aggiudicazione e il contratto) “o non si è resa disponibile a subentrare nel contratto è valutata dal Giudice ai sensi dell’art. 1227 del codice civile”.
Inoltre, l’art. 243 bis del codice dei contratti pubblici, aggiunto dall’art. 6 del decreto legislativo 20 marzo 2010, n. 53, come modificato dall’art. 3 dell’allegato 4 allo stesso decreto legislativo n. 104/2010, nel disciplinare l’istituto dell’informativa in ordine all’intento di proporre ricorso giurisdizionale, stabilisce, al comma 5, che l’omissione della comunicazione di cui al comma 1, finalizzata alla stimolazione dell’autotutela, costituisce comportamento valutabile ai sensi dell’art. 1227 del codice civile.
Il legislatore, in definitiva, ha mostrato di non condividere la tesi della pregiudizialità  pura di stampo processuale al pari di quella della totale autonomia dei due rimedi, approdando ad una soluzione che, non considerando l’omessa impugnazione quale sbarramento di rito, aprioristico ed astratto, valuta detta condotta come fatto concreto da apprezzare, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, per escludere il risarcimento dei danni evitabili per effetto del ricorso per l’annullamento.
Il Collegio conviene che entrambi i principi affermati dal D.Lgs. n. 104 del 2010 – quello dell’assenza di una stretta pregiudiziale processuale e quello dell’operatività  di una connessione sostanziale di tipo causale tra rimedio impugnatorio e azione risarcitoria – fossero ricavabili anche dal quadro normativo vigente prima dell’entrata in vigore del codice.
La mancanza di una pregiudizialità  di stretto rito è desumibile dalla ricordata autonomia, sul piano dell’oggetto e dell’effetto, dell’iniziativa impugnatoria rispetto al rimedio risarcitorio, tale da escludere che, per definizione e in astratto, una sentenza che condanni al risarcimento del danno cagionato dal provvedimento si risolva nella caducazione degli effetti dell’atto e, quindi, in una non ammissibile elusione del termine decadenziale, con frustrazione dell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici amministrativi perseguita dalla previsione di detto termine.
Si consideri poi, a conferma della diversità  e della non automatica sovrapponibilità  delle regole di validità  del provvedimento rispetto a quelle di liceità  del fatto, che il danno non è di norma cagionato dal provvedimento in sè inteso ma da un fatto, ossia da un comportamento, in seno al quale rilevano anche le condotte precedenti e successive all’atto.
In caso di fatto illecito non viene allora in rilievo una mera illegittimità  del provvedimento in sè ma un’illiceità  della condotta complessiva riguardo alla quale assume rilievo centrale il giudizio sintetico-comparativo di valore sull’ingiustizia del danno, nonchè la valutazione della rimproverabilità  soggettiva del contegno.
In definitiva, nell’ambito di un giudizio risarcitorio relativo alla liceità  dell’agere amministrativo, l’omessa impugnazione del provvedimento non può essere adeguatamente affrontata in termini processuali come condizione di ammissibilità  della domanda per via dell’estensione analogica di un termine decadenziale previsto per l’impugnazione, termine per sua natura eccezionale e, quindi, sottoposto al rispetto di un canone di stretta interpretazione.
La mancata operatività  di una pregiudizialità  processuale si coniuga con gli arresti della prevalente giurisprudenza comunitaria che considerano la domanda di annullamento e quella di risarcimento rimedi autonomi, pur se escludono la favorevole valutazione della domanda risarcitoria quando essa mascheri un’ormai tardiva azione di annullamento, così come negano la risarcibilità  dei danni che sarebbero stati evitati con la tempestiva impugnazione.
La soluzione adottata dal diritto comunitario, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, nel senso dell’autonomia processuale delle due tecniche di protezione, assume un rilievo pregnante nel nostro ordinamento alla luce del già  citato art. 1 del codice del processo amministrativo, che richiama espressamente i principi della Costituzione e del diritto europeo volti ad assicurare una tutela giurisdizionale piena ed effettiva.
La soluzione è suffragata anche dall’evoluzione della legislazione nazionale – registratasi già  prima dal codice del processo amministrativo e da questo armonicamente portata a compimento – in ordine alle tecniche di tutela dell’interesse legittimo ed al sistema delle invalidità  nel diritto amministrativo.
La tesi della necessaria subordinazione della tutela risarcitoria alla tutela di annullamento è, infatti, non in linea con la tendenza legislativa a superare il modello dell’esclusività  della tutela impugnatoria, con la conseguente ammissione di tecniche di tutela dell’interesse legittimo anche dichiarative e di condanna.
Il Collegio è dell’avviso che l’analisi dei rapporti sostanziali debba essere svolto sul piano della causalità , così introducendo il necessario temperamento all’autonomia processuale delle tutele e cogliendo la dipendenza sostanziale, come fatto da apprezzare in concreto, tra rimedio impugnatorio e azione risarcitoria.
Assume così rilievo il disposto dell’art. 1227, comma 2, del codice civile – norma applicabile anche in materia aquiliana per effetto del rinvio operato dall’art. 2056 – che, dando seguito ad un principio già  affermato dalla dottrina francese ottocentesca, considera non risarcibili i danni evitabili con un comportamento diligente del danneggiato: in particolare il comma 1, in combinato disposto con l’art. 1218 c.c., nell’affrontare il primo stadio della causalità  (c.d. causalità  materiale) inerente al rapporto tra condotta illecita (o inadempitiva) e danno-evento, valorizza il concorso di colpa del danneggiato come fattore che limita il risarcimento del danno causato in parte dallo stesso danneggiato o dalle persone di cui questi risponde; il comma 2, invece, operando sui criteri di determinazione del danno-conseguenza ex art. 1223 c.c, regola il secondo stadio della causalità  (c.d. causalità  giuridica), relativo al nesso tra danno-evento (o evento inadempimento precontrattuale o contrattuale) alle conseguenze dannose da esso derivanti.
In questo quadro la norma introduce un giudizio basato sulla cd. causalità  ipotetica, in forza del quale non deve essere risarcito il danno che il creditore non avrebbe subito se avesse serbato il comportamento collaborativo cui è tenuto, secondo correttezza.
Si vuole, a questa stregua, circoscrivere il danno derivante dall’inadempimento entro i limiti che rappresentano una diretta conseguenza dell’altrui colpa; l’art. 1227 c.c. capoverso costituisce allora applicazione del più generale principio di esclusione della responsabilità  ogni volta in cui si provi, in base ad un giudizio ipotetico più che strettamente causale, che il danno prodottosi non rappresenta una perdita patrimoniale per il creditore o per il danneggiato in quanto l’avrebbe egualmente subita o perchè avrebbe potuto evitarla.
La giurisprudenza e la dottrina hanno peraltro nel tempo dilatato, in sede interpretativa, la portata ed i confini dell’impegno cooperativo gravante sul creditore vittima di un altrui comportamento illecito; risulta così superato il tradizionale indirizzo restrittivo secondo il quale il canone della «diligenza» di cui all’art. 1227, comma 2, imporrebbe il mero obbligo (negativo) del creditore di astenersi da comportamenti volti ad aggravare il danno, mentre esulerebbe dallo spettro degli sforzi esigibili la tenuta di condotte di tipo positivo sostanziantisi in unfacere.
La giurisprudenza più recente, muovendo dal presupposto che la disposizione in parola non è formula meramente ricognitiva dei principi che governano la causalità  giuridica consacrati dall’art. 1223 c.c., ma costituisce autonoma espressione di una regola precettiva che fonda doveri comportamentali del creditore imperniati sul canone dell’auto-responsabilità , ha, infatti, adottato un’interpretazione estensiva ed evolutiva del comma 2 dell’art. 1227, secondo cui il creditore è gravato non soltanto da un obbligo negativo (astenersi dall’aggravare il danno), ma anche da un obbligo positivo (tenere quelle condotte, anche positive, esigibili, utili e possibili, rivolte a evitare o ridurre il danno).
Tale orientamento si fonda su una lettura dell’art. 1227, comma 2, c.c. alla luce delle clausole generali di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. e, soprattutto, del principio di solidarietà  sociale sancito dall’art. 2 Cost..
Detto approccio ermeneutico è, quindi, ispirato da una lettura della struttura del rapporto obbligatorio in forza della quale, anche nella fase patologica dell’inadempimento, il creditore, ancorchè vittima dell’illecito, è tenuto ad una condotta positiva (cd. controazione) tesa ad evitare o a ridurre il danno. Un limite all’obbligazione cooperativa e mitigatrice del creditore e agli sforzi in capo allo stesso esigibili è, peraltro, rappresentato dalla soglia del c.d. apprezzabile sacrificio: il danneggiato è tenuto ad agire diligentemente per evitare l’aggravarsi del danno, ma non fino al punto di sacrificare i propri rilevanti interessi personali e patrimoniali, attraverso il compimento di attività  complesse, impegnative e rischiose (cfr. Cass. civ., I, 5.5.2010, n. 10895).
Si deve allora ritenere che, sulla base di principi già  desumibili dal quadro normativo precedente ed oggi recepiti dall’art. 30, comma 3, del codice del processo amministrativo, il Giudice Amministrativo sia chiamato a valutare, senza necessità  di eccezione di parte ed acquisendo anche d’ufficio gli elementi di prova all’uopo necessari, se il presumibile esito di merito del ricorso di annullamento e dell’utilizzazione degli altri strumenti di tutela avrebbe, secondo un giudizio di causalità  ipotetica basato su una logica probabilistica che apprezzi il comportamento globale del ricorrente, evitando in tutto o in parte il danno.
Un rilievo significativo è destinato ad assumere l’utilizzo del mezzo di prova delle presunzioni ex artt. 2727 e seguenti del codice civile, che consente di valutare se l’apprezzamento dell’illegittimità  dell’atto operato in sede risarcitoria avrebbe portato anche all’annullamento dello stesso in modo da mitigare o ridurre il danno.
Venendo all’esame del caso di specie in forza delle premesse fin qui esposte, deve subito osservarsi come il contegno istituzionale complessivamente tenuto dal Comune di Apricena nella vicenda in esame non appare essere stato ispirato ai criteri di correttezza e buona fede che sarebbe stato lecito attendersi nel quadro dell’attività  preliminare alla stipula di un contratto di appalto di servizi.
Emerge, infatti, da detto contegno la sussistenza di un danno di tipo precontrattuale in tal modo inferto, sul quale occorre brevemente soffermarsi in via generale al fine di renderne più chiari i contorni.
Come è noto, la responsabilità  precontrattuale della Pubblica Amministrazione trova la propria regolamentazione primaria nel Codice civile, il quale, all’art. 1337, sancisce l’obbligo delle parti di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto.
Gravando il predetto obbligo di comportamento su tutte le parti del contratto, qualora, durante la fase di formazione dello stesso, dovessero essere violati i citati doveri di lealtà  e correttezza, la stessa l’Amministrazione ben potrebbe rispondere a titolo di responsabilità  precontrattuale nel caso in cui dovesse porre in essere comportamenti lesivi dell’affidamento della controparte.
L’iter evolutivo dell’istituto è stato lungo e segnato da una serie di tappe successive.
In una prima fase, durata fino alla fine degli anni ’50, si riteneva non configurabile una tale forma di responsabilità  in capo alla P.A. per due ragioni: la pubblica Amministrazione non poteva, nel corso della sua attività , compiere atti illeciti, essendo la sua attività  preordinata al raggiungimento di un interesse pubblico; l’indagine del Giudice Ordinario, volta all’accertamento della responsabilità  della Pubblica Amministrazione, si sarebbe trasformata in un inammissibile sindacato giudiziale sulle modalità  di esercizio dei poteri discrezionali negoziali.
In una seconda fase, inaugurata nel 1961 dalle SS.UU. della Cassazione (cfr. sentenza n. 1675/1961), è stata riconosciuta, per la prima volta, la configurabilità  della responsabilità  precontrattuale della P.A..
L’apertura giurisprudenziale, tuttavia, era avvenuta con riguardo a due sole ipotesi: ingiustificato recesso da una trattativa privata (c.d. pura) e violazione del dovere di correttezza e buona fede, nel rapporto instauratosi successivamente all’aggiudicazione della gara (ad es. per omissione o ritardo nell’approvazione del contratto).
Solo in queste ipotesi, infatti, si riteneva che la P.A. si spogliasse dei propri doveri pubblicistici ed operasse come un qualunque altro soggetto.
Al contrario, la responsabilità  precontrattuale della P.A. non poteva configurarsi nell’ipotesi di pubblico incanto e di licitazione privata.
Si riteneva, infatti, che nel corso dei procedimenti di evidenza pubblica gli interessati non rivestissero la qualità  di parte contraente, cui poteva applicarsi l’articolo 1337 c.c., ma fossero semplicemente meri “partecipanti alla gara”.
In una terza fase si è registrata la conquista giurisprudenziale più rilevante: è stata affermata la responsabilità  precontrattuale anche nell’ipotesi di svolgimento di attività  amministrativa legittima. In particolare, l’attività  de qua, sebbene legittima, può essere, infatti, lesiva del principio di affidamento e buona fede (cfr. Ad. Plen. n. 6/2005).
In tali casi, infatti, il risarcimento consegue alla violazione degli obblighi di buona fede ed alla lesione del legittimo affidamento del privato (cfr. Cons. di Stato, Sez. V, Sentenza n. 552/2012).
Occorre, altresì, evidenziare come, da ultimo, la giurisprudenza amministrativa abbia affermato la possibilità  della configurazione di responsabilità  precontrattuale della P.A. anche in presenza di un provvedimento amministrativo illegittimo.
In particolare, come di recente è stato affermato da Consiglio di Stato, Sez. V, 7 settembre 2009 n. 5245: “con particolare riferimento alle procedure di evidenza pubblica, la responsabilità  precontrattuale dell’amministrazione è stata indifferentemente configurata dalla giurisprudenza sia in presenza del preventivo annullamento per illegittimità  di atti della sequenza procedimentale, sia nell’assodato presupposto della loro validità  ed efficacia: a) nel caso di revoca dell’indizione della gara e dell’aggiudicazione per esigenze di una ampia revisione del progetto, disposta vari anni dopo l’espletamento della gara; b) per impossibilità  di realizzare l’opera prevista per essere mutate le condizioni dell’intervento; c) nel caso di annullamento d’ufficio degli atti di gara per un vizio rilevato dall’amministrazione solo successivamente all’aggiudicazione definitiva o che avrebbe potuto rilevare già  all’inizio della procedura; d) nel caso di revoca dell’aggiudicazione, o rifiuto a stipulare il contratto dopo l’aggiudicazione, per mancanza dei fondi” (cfr. in senso conforme, Cons. Stato, Sez. IV, Sentenza 7 febbraio 2012 n. 662).
In definitiva, dunque, in seno ad un procedimento ad evidenza pubblica può configurarsi, accanto ad una responsabilità  civile per lesione dell’interesse legittimo, derivante dalla illegittimità  degli atti o dei provvedimenti relativi al procedimento amministrativo di scelta del contraente, una responsabilità  di tipo precontrattuale per violazione di norme imperative che pongono “regole di condotta”, da osservarsi durante l’intero svolgimento della procedura di evidenza pubblica.
Le predette regole “di validità ” e “di condotta”, come ribadito più volte dalla giurisprudenza amministrativa, operano su piani distinti: non è necessaria la violazione delle regole di validità  per aversi responsabilità  precontrattuale e, viceversa, la inosservanza delle regole di condotta può non determinare l’invalidità  della procedura di affidamento (cfr. Cons. Stato, sez. IV, Sentenza n. 4676 del 15.09.2014).
Poste tali premesse, il Collegio ritiene sussistente, nella vicenda di cui è causa, la responsabilità  precontrattuale del Comune di Apricena.
Infatti, nel caso di specie, pur dovendosi assumere come legittimo l’operato dell’Amministrazione, essendo la stessa addivenuta alle determinazioni di revoca sopra ricordate in assenza di una tempestiva impugnazione delle medesime, il Collegio deve riconoscere il diritto dell’odierna appellante al risarcimento dei danni, derivanti dal contegno tenuto dall’Amministrazione, risultando lo stesso idoneo ad ingenerare la legittima aspettativa dell’appellante, in ordine all’aggiudicazione definitiva della gara ed alla stipula del contratto.
In particolare, risulta essere patentemente contraddittorio aver prima aggiudicato tramite gara il servizio trasporto disabili in oggetto alla società  ricorrente (con provvedimento del 21.1.2009) per poi successivamente revocare l’aggiudicazione in questione, sulla base del mutato intendimento amministrativo volto non più ad affidare ad un soggetto esterno il detto servizio, volendo fare luogo – viceversa – ad una gestione diretta in economia del medesimo (cfr. determinazione del Segretario Generale in data 26.2.2009), per poi, a strettissimo giro, tornare nuovamente indietro sulla detta decisione, riqualificando il servizio in questione come un servizio di ambito e dando indirizzo per l’avvio delle relative procedure di gara (cfr. delibere nn. 93 del 12.3.2009 e 102 del 26.3.2009) poi successivamente espletate.
Sia pure a voler del tutto prescindere dalle pesanti suggestioni evidenziate in ricorso sui motivi effettivi posti a base di tale ondivago procedere, tale complessivo comportamento amministrativo – anche isolatamente considerato e così come consegnato agli atti in provvedimenti palesemente contraddittori e quasi epigrammatici nel loro contenuto motivazionale e giustificativo – ha con ogni evidenza arrecato un danno di tipo precontrattuale nella sfera giuridica della società  ricorrente, in quanto quest’ultima, pur essendo risultata aggiudicataria definitiva della gara de quo, non ha potuto beneficiare della stipula del relativo contratto, perdendo la correlata opportunità  di lavoro, di profitto e di crescita professionale, in assenza di qualunque compiuta chiarificazioni delle ragioni poste a base di tali esiti.
Ferma dunque l’ormai insindacabile legittimità  dei singoli provvedimenti sopra ricordati, resta aperta la problematica risarcitoria posta dalla contraddittorietà  e dalla omessa compiuta giustificazione del complessivo comportamento amministrativo scaturente dal quadro provvedimentale più volte sopra ricordato.
In ordine alla quantificazione del danno, occorre ricordare quanto acclarato dall’Adunanza Plenaria, nella sopra richiamata sentenza n. 6 del 2005, per la quale lo stesso deve ritenersi limitato all’interesse negativo, comprensivo, però, sia del danno emergente sia del lucro cessante.
Sicchè, il danno risarcibile a titolo di responsabilità  precontrattuale in relazione alla mancata stipula di un contratto d’appalto o in relazione all’invalidità  dello stesso, comprende le spese sostenute dall’impresa per aver partecipato alla gara (danno emergente), ma anche e soprattutto la perdita, se adeguatamente provata, di ulteriori occasioni di stipulazione di altri contratti altrettanto o maggiormente vantaggiosi, impedite proprio dalle trattative indebitamente interrotte (lucro cessante), con esclusione del mancato guadagno che sarebbe derivato dalla stipulazione ed esecuzione del contratto non concluso.
Precisa, infatti, l’Adunanza Plenaria che, quanto alle voci di danno catalogabili come afferenti al lucro cessante, occorre, innanzitutto, escludere quelle ascrivibili al mancato conseguimento dell’utile d’impresa, in quanto riferite al c.d. interesse positivo che, come tale, non può essere risarcito in una fattispecie di responsabilità  precontrattuale. In ordine alla richiesta di risarcimento del danno da perdita di chances (integrata dal fallimento di favorevoli ed alternative occasioni contrattuali), appare necessario operare una preliminare ricognizione delle condizioni costitutive del relativo diritto. La perdita di chances, diversamente dal danno futuro, che riguarda, invece, un pregiudizio non attuale, ma soggetto a ristoro purchè certo e altamente probabile, nonchè ascrivibile ad una causa efficiente già  in atto, costituisce un danno attuale, che non si identifica con la perdita di un risultato utile, ma con quella della possibilità  di conseguirlo, e postula, a tal fine, la sussistenza di una situazione presupposta, concreta ed idonea a consentire la realizzazione del vantaggio sperato, da valutarsi sulla base di un giudizio prognostico e statistico, fondato sugli elementi di fatto allegati dal danneggiato (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 7 febbraio 2002, n. 686).
Al fine di ottenere il risarcimento per perdita di una chance, è quindi, necessario che il danneggiato dimostri, anche in via presuntiva, ma pur sempre sulla base di circostanze di fatto certe e puntualmente allegate, la sussistenza di un valido nesso causale tra la condotta lesiva (nella specie: revoca dell’aggiudicazione) e la ragionevole probabilità  del conseguimento del vantaggio alternativo perduto (nella specie: aggiudicazione di altri appalti) e provi, conseguentemente, la sussistenza, in concreto, dei presupposti e delle condizioni del raggiungimento del risultato sperato ed impedito dalla condotta illecita (della quale il danno risarcibile deve configurarsi come conseguenza immediata e diretta).
Tenuto conto dell’ampia documentazione presentata in atti, dell’importo comparativamente limitato della commessa in esame (come sopra evidenziato, pari ad euro 66.000,00) e delle circostanze di fatto che hanno caratterizzato la fattispecie in questione, ritiene il Collegio di poter procedere ad una valutazione equitativa e forfetaria del danno subito, rapportandolo ad una somma pari al 10% dell’importo della commessa, in applicazione analogica del criterio desumibile dall’art. 345 L. n. 2248/1865, all. F, attualmente ribadito negli artt. 134 e 158 del Codice dei contratti pubblici D.lgs. n. 163/2006.
L’Amministrazione intimata dovrà  pertanto, ai sensi dell’art. 34, quarto comma, c.p.a., formulare, nel termine di giorni sessanta dalla notificazione o dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza, una proposta di risarcimento che tenga conto dei criteri sopra determinati, calcolando, altresì, l’importo della rivalutazione monetaria e degli interessi legali sul ritardato pagamento.
Da ultimo, le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Tenuto conto della gravità  dei fatti messi in evidenza nel ricorso introduttivo dovrà  infine tuzioristicamente disporsi la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Foggia, alla Procura presso la sede regionale della Corte dei Conti e all’A.N.A.C. per gli eventuali provvedimenti di competenza.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, Sede di Bari, Sezione I, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto:
– dichiara il diritto della società  ricorrente al risarcimento del danno per responsabilità  precontrattuale dell’Amministrazione resistente, che verrà  liquidato secondo i criteri sopra precisati, a norma dell’art. 34, comma 4, c.p.a.;
– condanna il Comune di Apricena al pagamento in favore della società  Egepu S.r.l. delle spese e dei compensi di lite, che liquida in complessivi € 4.000,00 (euro quattromila,00), oltre accessori come per legge;
– dispone la trasmissione del presente provvedimento alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Foggia, alla Procura presso la sede regionale della Corte dei Conti e all’A.N.A.C. per gli eventuali provvedimenti di competenza.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità  amministrativa.
Così deciso in Bari nella camera di consiglio del giorno 27 gennaio 2016 con l’intervento dei magistrati:
 
 
Angelo Scafuri, Presidente
Francesco Cocomile, Primo Referendario
Alfredo Giuseppe Allegretta, Referendario, Estensore
 
 
 
 

 
 
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
 
 
 
 
 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 11/03/2016
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

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