1. Risarcimento del danno – Danno aquiliano – Elemento soggettivo – Necessità  – Responsabilità  oggettiva – Appalti – Eccezione  


2. Risarcimento danni – Domanda – Danno aquilino – Presupposti – Elemento soggettivo della colpa – Onere probatorio – Presunzioni ex art. 2727 c.c. – Errore scusabile – Onere della p.A.
 
3. Risarcimento del danno – Colpa p.A. – Concorso di colpa del danneggiato – Rilievo d’ufficio

4. Risarcimento del danno – Responsabilità  della p.A. – Presupposti – Illegittimità  provvedimento – Difetto motivazione – Riesercizio del potere – Discrezionalità  della p.A. – Conseguenze 

5. Risarcimento del danno – Domanda – Colpa della p.A. – Diligenza del creditore Rilevanza

1. L’illecito aquiliano della p.A deve essere valutato alla stregua dei principi generali vigenti nel nostro ordinamento e, quindi, alla luce del disposto dell’art. 2043 c.c. che impone di valutare la contemporanea sussistenza dell’elemento oggettivo e dell’elemento soggettivo dell’illecito, al fine di evitare che il risarcimento del danno discenda in modo automatico dalla constatazione di una mera illegittimità  dell’azione amministrativa, posto che forme di responsabilità  oggettiva dell’amministrazione sono circoscritte alla dettagliata disciplina europea relativa alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici.

2. In materia di responsabilità  ex art. 2043 c.c. della PA, l’onere del danneggiato di provare la sussistenza dell’elemento soggettivo, di quello oggettivo e del nesso di causalità  è alleggerito, potendo lo stesso invocare l’illegittimità  del provvedimento quale indice presuntivo della colpa ex art. 2727 cod. civ. o anche allegare circostanze idonee a dimostrare che si è trattato di un errore inescusabile, mentre spetta all’amministrazione dimostrare l’assenza di colpa attraverso la deduzione di circostanze integranti gli estremi dell’errore scusabile quale la complessità  del procedimento relativo all’adozione della interdittiva antimafia

3. In ordine alla valutazione della colpa della p.A. quale elemento costitutivo dell’illecito aquiliano il concorso di colpa del danneggiato ex art. 1227, comma 1 c.c., richiamato dall’art. 2056 c.c. deve essere verificato dal giudice anche d’ufficio.

4. La domanda di risarcimento del danno causato da un illegittimo provvedimento, annullato per difetto di motivazione in sede giurisdizionale, non può essere accolta ove persistono in capo alla PA spazi di discrezionalità  in sede di riesercizio del potere, con la conseguenza che la domanda in esame non può essere valutata che all’esito nel nuovo eventuale esercizio del potere.

5. In materia di responsabilità  aquiliana della pA, la regola della non risarcibilità  dei danni evitabili con l’impugnazione del provvedimento e con la diligente utilizzazione degli altri strumenti di tutela, di cui all’art. 30, comma 3 cpa, è ricognitiva dei principi evincibili dall’art. 1227, comma 2. Pertanto l’omessa attivazione degli strumenti di tutela costituisce dato valutabile alla stregua del canone di buona fede, ai fini della esclusione o mitigazione del danno evitabile con l’ordinaria diligenza.

N. 00422/2015 REG.PROV.COLL.
N. 01242/2010 REG.RIC.
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale -OMISSIS-, proposto da -OMISSIS-., rappresentata e difesa dall’avv. Giovanni Abbattista, con domicilio eletto presso l’avv. Gaetano Scattarelli in Bari, piazza Luigi di Savoia, 37;

contro
Ministero dell’Interno e Prefettura di Bari – Ufficio Territoriale del Governo, rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Bari, domiciliataria in Bari, via Melo, 97;

per la condanna
dell’Amministrazione intimata al risarcimento dei danni subiti dalla società  ricorrente per effetto della nota informativa prefettizia prot. n. 455/08 del 31 ottobre 2008, annullata con sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, Bari, n. -OMISSIS-, notificata in data 18 novembre 2009 e passata in giudicato;
 

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell’Interno e della Prefettura di Bari – Ufficio Territoriale del Governo;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l’art. 52, commi 1 e 2 dlgs 30 giugno 2003, n. 196;
Relatore il dott. Francesco Cocomile e udito nell’udienza pubblica del giorno 11 febbraio 2015 per la parte ricorrente il difensore avv. Giovanni Abbattista;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
 

FATTO e DIRITTO
Con l’atto introduttivo la ricorrente -OMISSIS-. in persona dell’amministratore unico -OMISSIS-agiva in giudizio per la condanna del Ministero dell’Interno e della Prefettura di Bari, in solido tra loro, al risarcimento dei danni subiti per effetto della nota informativa prefettizia prot. n. 455/08 del 31 ottobre 2008, dapprima sospesa con ordinanza cautelare-OMISSIS-e successivamente annullata con sentenza di questo Tribunale-OMISSIS-del 4 novembre 2009, notificata in data 18 novembre 2009 e passata in giudicato.
La società  istante rilevava che da tale informativa prefettizia sarebbe derivata la risoluzione di tre contratti di subappalto in essere rispettivamente con Grandi Lavori Fincosit, con Todini Costruzioni Generali e con Mucafer s.p.a.
Il pregiudizio lamentato veniva, pertanto, ricollegato alla risoluzione di detti contratti.
Si costituivano il Ministero dell’Interno e la Prefettura di Bari – Ufficio Territoriale del Governo, resistendo al gravame.
Con ordinanza istruttoria n.-OMISSIS-questo T.A.R. disponeva consulenza tecnica d’ufficio al fine di accertare l’entità  delle perdite patrimoniali dirette ed indirette subite dalla società  ricorrente per effetto della risoluzione anticipata dei contratti di subappalto stipulati.
Con successiva ordinanza istruttoria n. -OMISSIS-veniva ordinata integrazione dei quesiti rivolti al c.t.u. e l’acquisizione di vari documenti ai soli fini della valutazione dei profili soggettivi della responsabilità  dell’Amministrazione convenuta.
Ciò premesso in punto di fatto, ritiene questo Collegio che la domanda risarcitoria di cui al ricorso introduttivo debba essere respinta.
Venendo in rilievo una controversia meramente risarcitoria per responsabilità  della Pubblica Amministrazione, è opportuno preliminarmente richiamare quanto affermato nel corso del tempo dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea in tema di responsabilità  degli Stati membri per violazione del diritto europeo e dalla giurisprudenza amministrativa italiana relativamente alla tematica della responsabilità  aquiliana della P.A. per lesione dell’interesse legittimo (in particolare sul punto della prova dell’elemento soggettivo).
Costituisce un principio costantemente affermato dalla Corte di Giustizia di Lussemburgo quello della responsabilità  dello Stato per danni causati ai soggetti dell’ordinamento da violazione del diritto comunitario.
Secondo la giurisprudenza europea affinchè ricorra un’ipotesi di responsabilità  dello Stato è necessario che sussistano contestualmente tre condizioni: 1) che la norma giuridica comunitaria violata sia preordinata a conferire diritti ai soggetti dell’ordinamento; 2) che la violazione di tale norma sia sufficientemente qualificata; 3) che esista un nesso causale diretto tra la violazione ed il danno subito da tali soggetti (cfr. Corte giust. CE, 19 novembre 1991, C-6/90 e C-9/90, Francovich; id., 5 marzo 1996, C-46/93 e C-48/93, Brasserie du pàªcheur e Factortame; id., 23 maggio 1996, C-5/94, Hedley Lomas; id., 8 ottobre 1996, C-178/94, C-179/94 e da C-188/94 a C-190/94, Dillenkofer).
Relativamente al punto 2), la Corte di Giustizia (cfr. Corte Giustizia UE, Sez. II, 19 aprile 2007, n. 282 con riferimento alla ipotesi della responsabilità  della Comunità , ma estensibile anche al caso della responsabilità  dello Stato membro) ha evidenziato che la violazione è “sufficientemente qualificata” allorchè la stessa sia “grave e manifesta” sulla base di una pluralità  di indici che dovranno essere considerati di volta in volta dal giudice interno investito della controversia risarcitoria:
«Il sorgere della responsabilità  extracontrattuale della Comunità  è subordinato al sussistere di un insieme di condizioni, tra le quali figura, quando è in discussione l’illegittimità  di un atto giuridico, l’esistenza di una violazione sufficientemente grave e manifesta di una norma che conferisce diritti ai singoli. Per quanto riguarda tale condizione, il criterio decisivo per considerare una violazione del diritto comunitario sufficientemente qualificata è quello della violazione grave e manifesta, da parte di una istituzione comunitaria, dei limiti del suo potere discrezionale. Qualora tale istituzione disponga solo di un margine di valutazione considerevolmente ridotto, se non addirittura inesistente, la semplice trasgressione del diritto comunitario può essere sufficiente per accertare l’esistenza di una violazione sufficientemente grave e manifesta. La natura generale o individuale di un atto non è pertanto determinante per stabilire se si sia in presenza di una violazione di tal genere.».
Sul punto specifico della responsabilità  dello Stato membro per violazione del diritto comunitario Corte Giustizia UE, 5 marzo 1996, n. 46 ha rimarcato:
“¦ sia per quanto riguarda la responsabilità  della Comunità  ai sensi dell’art. 215 sia per quanto attiene alla responsabilità  degli Stati membri per violazioni del diritto comunitario, il criterio decisivo per considerare sufficientemente caratterizzata una violazione del diritto comunitario è quello della violazione manifesta e grave, da parte di uno Stato membro o di un’istituzione comunitaria, dei limiti posti al loro potere discrezionale.”.
Sembrerebbe prima facie che nella configurazione degli elementi costitutivi della responsabilità  dello Stato membro secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia non vi sia spazio per un elemento di natura soggettiva, diversamente da quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza italiana a partire dalla storica decisione di Cass. civ., Sez. Un., 22 luglio 1999, n. 500 laddove la responsabilità  della Pubblica Amministrazione è stata inquadrata nello schema della responsabilità  aquiliana di cui all’art. 2043 cod. civ. (che evidentemente presuppone la dimostrazione, oltre che dell’elemento oggettivo, anche della sussistenza dell’elemento psicologico in capo al soggetto danneggiante).
Tuttavia, come evidenziato da Cons. Stato, Sez. IV, 31 gennaio 2012, n. 482 – a ben vedere – non sussiste, con esclusione di quanto affermato dalla Corte di Giustizia con la sentenza n. 314/2010 in tema di appalti pubblici, una incompatibilità  tra il sistema europeo di responsabilità  dello Stato membro (ove è centrale l’elemento oggettivo della violazione “grave e manifesta” del diritto) e la costruzione giurisprudenziale interna nella quale invece sembra essenziale l’elemento psicologico dell’illecito aquiliano ex art. 2043 cod. civ.
In particolare, Cass. civ., Sez. Un., 22 luglio 1999, n. 500 ha sottolineato che la colpa dell’Amministrazione va intesa come colpa della P.A. – apparato, colpa configurabile nel caso in cui l’adozione e l’esecuzione dell’atto illegittimo lesivo dell’interesse legittimo del danneggiato sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità , di correttezza e di buona amministrazione, quali limiti esterni alla discrezionalità .
In pratica, la preoccupazione evidenziata dalla Corte di Cassazione era quella di evitare l’affermazione di una prova diabolica gravante sul danneggiato laddove la colpa fosse stata intesa come elemento psicologico del funzionario – persona fisica agente.
Tuttavia, è evidente che la colpa dell’Amministrazione, intesa quale apparato e quindi come violazione di regole di imparzialità , di correttezza e di buona amministrazione, implicava il rischio opposto di immedesimazione della colpa nell’elemento oggettivo, vale a dire nella mera constatazione della illegittimità  del provvedimento lesivo e produttivo del danno.
Per questa ragione, la giurisprudenza interna successiva ha cercato di bilanciare due esigenze contrapposte: da un lato introdurre un filtro alle azioni risarcitorie al fine di impedire la proliferazione di domande pretestuose, proliferazione che sarebbe derivata da una totale identificazione della responsabilità  della P.A. con la mera illegittimità  degli atti amministrativi contestati; dall’altro lato evitare di rendere eccessivamente gravoso l’onere di allegazione gravante sul privato danneggiato.
A tal fine, l’orientamento prevalente della giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 31 gennaio 2012, n. 482) ha utilizzato il concetto di “errore scusabile” e quindi, facendo ricorso al meccanismo delle presunzioni semplici di cui agli artt. 2727 e 2729 cod. civ., si è giunti alla conclusione che l’illegittimità  del provvedimento costituisce un mero indice rivelatore della colpevolezza della Pubblica Amministrazione, da considerare in uno ad altri elementi, quali possono essere il grado di chiarezza della normativa applicabile, la semplicità  del fatto, il carattere pacifico della questione esaminata, il carattere vincolato o a bassa discrezionalità  dell’azione amministrativa.
In tal modo si è giunti ad un sostanziale alleggerimento dell’onere probatorio gravante sul privato danneggiato dall’azione amministrativa (se non ad una vera e propria “inversione dell’onere probatorio” in punto di elemento psicologico), con la conseguenza che allo stesso è sufficiente allegare l’illegittimità  dell’atto amministrativo, mentre incombe sulla P.A. convenuta l’onere di dimostrare l’assenza di colpa attraverso la deduzione di circostanze integranti gli estremi del cosiddetto “errore scusabile”, ovvero l’inesigibilità  di una condotta alternativa lecita (cfr.ex multis Cons. Stato, Sez. V, 28 aprile 2014, n. 2191), quali l’assenza di chiarezza della normativa applicabile, l’elevato grado di complessità  del fatto, il carattere non pacifico della questione esaminata, il carattere altamente discrezionale dell’azione amministrativa.
In altre parole, la giurisprudenza interna si preoccupa di individuare parametri di natura oggettiva al fine di meglio qualificare l’elemento soggettivo dell’illecito aquiliano della P.A., vale a dire la colpa della stessa Amministrazione, ed in questo vi è una piena convergenza con gli approdi della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea in tema di accertamento degli elementi costitutivi della responsabilità  dello Stato per violazione del diritto comunitario.
Infatti, sono rare ed eccezionali le fattispecie in cui la Corte di Giustizia individua una responsabilità  “oggettiva”, ovvero una responsabilità  per colpa in re ipsa (con esclusione della ammissibilità  della prova contraria) dello Stato membro e si tratta di ipotesi in cui la normativa europea di riferimento, oltre che immediatamente applicabile all’interno dello Stato membro, è anche estremamente analitica e dettagliata, in modo tale da non lasciare alcuno spazio di discrezionalità  agli stessi Stati membri.
Vengono, cioè, in rilievo fattispecie chiaramente eccezionali e, di conseguenza, tassative (in forza di quanto evidenziato dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 482/2012) in cui il grado di dettaglio della normativa europea è tale per cui la relativa violazione non può non essere considerata “grave e manifesta” e quindi tale da far presumereiuris et de iure la colpa dello Stato ovvero dell’Amministrazione agente secondo la valutazione operata dalla Corte di Giustizia.
A prescindere da dette ipotesi eccezionali, la Corte di Giustizia si è sempre posta il problema di individuare gli indici rivelatori del carattere “grave e manifesto” della violazione del diritto comunitario, indici che la stessa Corte ha sempre riferito “¦ al grado di chiarezza e precisione della norma violata, all’ampiezza del potere discrezionale che tale norma riserva alle autorità  nazionali o comunitarie, al carattere intenzionale o involontario della trasgressione commessa o del danno causato, alla scusabilità  o inescusabilità  di un eventuale errore di diritto, alla circostanza che i comportamenti adottati da un’istituzione comunitaria abbiano potuto concorrere alla violazione” (cfr. Corte di giust. CE, Brasserie du pàªcheur e Factortame, cit.; negli stessi termini, Corte di giust. CE, Dillenkofer, sopra richiamate).
In ultima analisi, gli indici rivelatori, elaborati dalla Corte UE, del carattere grave e manifesto della violazione del diritto comunitario sono perfettamente coerenti con i criteri individuati dalla giurisprudenza interna al fine di definire i contorni della colpa della P.A.
La preoccupazione della Corte di Giustizia è, pertanto, identica a quella dei giudici italiani, vale a dire evitare che attraverso una configurazione della responsabilità  dello Stato in termini meramente “oggettivi” il risarcimento del danno discenda sempre e comunque in modo automatico dalla constatazione di una mera illegittimità  dell’azione amministrativa.
Peraltro, la configurazione interna della responsabilità  dello Stato (e quindi la necessità  dell’elemento psicologico, sia pure attraverso il meccanismo dell’inversione dell’onere della prova) non è in contrasto con i principi individuati dalla Corte di Giustizia, posto che la giurisprudenza europea ha sempre affermato che, una volta rispettati i parametri generali, spetta poi al diritto interno dettare i criteri in base ai quali il giudice nazionale deve accertare la sussistenza ovvero l’insussistenza della responsabilità  dello Stato o della Pubblica Amministrazione nei casi concreti.
Le conclusioni esaminate non mutano per effetto della sentenza della Corte di Giustizia, Sez. III, 30 settembre 2010, n. 314:
«La direttiva del Consiglio 21 dicembre 1989, 89/665/CEE, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale, la quale subordini il diritto ad ottenere un risarcimento a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un’amministrazione aggiudicatrice al carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l’applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all’amministrazione suddetta, nonchè sull’impossibilità  per quest’ultima di far valere la mancanza di proprie capacità  individuali e, dunque, un difetto di imputabilità  soggettiva della violazione lamentata.».
In sostanza, il giudice europeo sembra sancire una “eccezionale” ipotesi di responsabilità  (fonte di un’obbligazione risarcitoria a carico dello Stato) “oggettiva” della Amministrazione nazionale aggiudicatrice in ipotesi di “violazione della disciplina sugli appalti pubblici”.
Tuttavia, Cons. Stato, Sez. IV, 31 gennaio 2012, n. 482, alla luce delle considerazioni espresse in precedenza, ha condivisibilmente escluso una portata generale (vale a dire non circoscritta all’ambito degli appalti pubblici ed alla violazione della relativa disciplina europea) della menzionata pronuncia della Corte di Giustizia UE n. 314/2010:
«¦ Al di là  della questione più generale – che solo l’evoluzione giurisprudenziale futura potrà  chiarire – di quali potranno essere le ricadute concrete del principio così enunciato, quand’anche esso dovesse essere inteso nel senso dell’affermazione di una vera e propria responsabilità  oggettiva, è del tutto ragionevole che esso debba restare circoscritto al settore degli appalti pubblici, come si desume non solo dal richiamo alla disciplina europea specifica in materia di ricorsi giurisprudenziali in materia di procedure di aggiudicazione (la citata direttiva 89/665/CEE come modificata dalla direttiva 2007/66/CE), ma anche dall’evidente tensione della Corte all’effettività  della tutela in un settore oggetto di particolare attenzione da parte delle istituzioni comunitarie per la sua incidenza sul corretto funzionamento del mercato e della concorrenza. ¦».
Ed, infatti, il principio di diritto di cui alla citata sentenza europea n. 314/2010 ha una sua peculiarità  che si giustifica in relazione alla specifica materia delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, poichè in questo particolare settore il risarcimento del danno viene qualificato dalla stessa Corte di Giustizia come “alternativa procedurale” al conseguimento del bene della vita auspicato dall’impresa ricorrente, ossia l’aggiudicazione, in tutti i casi in cui tale tutela specifica non possa essere concessa all’esito del giudizio.
In questo paricolare settore (procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici) la Corte UE assegna al risarcimento del danno una peculiare funzione “riparatorio – compensativa” (oltre che sanzionatoria dell’illegittimo operato della P.A.), più che retributiva, ossia di ristoro patrimoniale di un pregiudizio patito.
E’, quindi, logico che in settori diversi da quello della “aggiudicazione degli appalti pubblici” debbano tornare ad applicarsi i principi generali enunciati dalla Corte di Giustizia in tema di responsabilità  degli Stati membri per violazione del diritto comunitario, ovvero le regole dettate dalla giurisprudenza interna relativamente alla responsabilità  aquiliana dell’Amministrazione per lesione dell’interesse legittimo.
Pertanto, l’affermazione della Corte di Giustizia contenuta nella sentenza n. 314/2010 assume un ambito necessariamente circoscritto alla materia delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, specie se si considera che la disciplina europea relativa alle suddette procedure si connota per una sostanziale “completezza e autoconclusività ” e per un estremo grado di dettaglio, tale per cui una violazione di siffatta disciplina non può non corrispondere nella gran parte dei casi, salvo ipotesi estremamente rare, ai parametri generali (anche sotto il profilo del carattere “grave e manifesto” della violazione, che la nostra giurisprudenza interna traduce in termini di colpa della P.A.) cui la giurisprudenza comunitaria subordina la sussistenza della responsabilità  dello Stato.
Questi argomenti (carattere “eccezionale” del principio di diritto espresso dalla decisione della Corte UE n. 314/2010 limitata al settore delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici ed in particolare alla responsabilità  della P.A. per violazione della normativa europea di riferimento) sono stati ribaditi da Cons. Stato, Sez. IV, 4 settembre 2013, n. 4439 e da T.A.R. Puglia, Bari, Sez. I, 27 luglio 2012, n. 1526.
Ciò premesso, ritiene questo Collegio che nel caso di specie non ricorra la fattispecie “eccezionale” di cui alla decisione della Corte di Giustizia UE n. 314/2010, venendo in rilievo una domanda risarcitoria conseguente non già  ad una violazione della disciplina europea sugli appalti pubblici, bensì ad una mera illegittimità  (peraltro di carattere formale) concretizzatasi in un difetto di motivazione (rilevante ai sensi dell’art. 3 legge n. 241/1990 e posto a fondamento della sentenza di questo T.A.R. n. -OMISSIS- di un provvedimento interdittivo antimafia.
Invero, la sentenza del T.A.R. Puglia, Bari n.-OMISSIS-annullava, su ricorso della odierna istante -OMISSIS-), la nota prefettizia interdittiva del 31.10.2008 per mero difetto di motivazione, peraltro con espressa salvezza del successivo riesercizio del potere (cfr. pag. 7 della motivazione).
Nel menzionato giudizio r.g. n. -OMISSIS-non veniva in rilievo, nè era stata dedotta da parte ricorrente alcuna violazione della normativa interna di recepimento delle disposizioni comunitarie in materia di aggiudicazione di appalti pubblici, le uniche la cui inosservanza comporta, in forza della condivisibile interpretazione, offerta da Cons. Stato, Sez. IV, 31 gennaio 2012, n. 482, del principio di diritto di cui alla decisione della Corte di Giustizia UE n. 314/2010, una responsabilità  “oggettiva” della P.A.
Le sole disposizioni dedotte da parte ricorrente e prese in considerazione nel giudizio r.g. n. -OMISSIS-(concluso con la citata sentenza n. -OMISSIS- erano, appunto, “interne” (i.e. art. 3 legge n. 241/1990 e normativa antimafia attualmente confluita nel dlgs n. 159/2011).
Pertanto, l’illecito aquiliano della P.A. nella fattispecie oggetto del presente giudizio deve essere valutato alla stregua dei principi generali vigenti nel nostro ordinamento e, quindi, alla luce del disposto dell’art. 2043 cod. civ. che impone di valutare la contemporanea sussistenza dell’elemento oggettivo e dell’elemento soggettivo dell’illecito.
Invero, come sottolineato dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 20 gennaio 2009, n. 242), l’illecito aquiliano (ex art. 2043 cod. civ.) della Pubblica Amministrazione richiede la contestuale sussistenza (e dimostrazione) dell’elemento oggettivo, di quello soggettivo e del nesso causale.
In realtà  – come evidenziato da Cons. Stato, Sez. IV, 31 gennaio 2012, n. 482 – l’onere probatorio del danneggiato è agevolato, poichè il privato può invocare l’illegittimità  del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile, mentre – come visto in precedenza – spetta all’Amministrazione dimostrare l’errore scusabile che esclude la colpa.
Nel caso di specie, pur essendo incontestata la sussistenza dell’elemento oggettivo (i.e. illegittimità  definitivamente acclarata – secondo la statuizione di cui alla sentenza del T.A.R. Bari n.-OMISSIS-resa nel giudizio r.g. n. -OMISSIS– della nota prefettizia del 30.10.2008 fonte di pregiudizio per la società  ricorrente), non risulta in alcun modo dimostrato l’elemento soggettivo dell’illecito aquiliano, poichè – come correttamente rimarcato e dimostrato dalla difesa della Amministrazione (cfr. nota della Prefettura di Bari del 27.9.2013) – la stessa P.A. evocata in giudizio è incorsa in un “errore scusabile” derivante dalla evidente complessità  del procedimento amministrativo per cui è causa.
Si è, dunque, al cospetto di una questione giuridica complessa e, quindi, spia rivelatrice – come detto – di quell’errore scusabile, la cui dimostrazione (gravante sull’Amministrazione convenuta) consente, secondo la costante giurisprudenza del Consiglio di Stato, di far andare esente (per carenza di colpa) la stessa Amministrazione da responsabilità  aquiliana ex art. 2043 cod. civ. derivante da atto amministrativo illegittimo.
Come rilevato dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato in precedenza analizzata (sentenza n. 482/2012), l’atipicità  del regime relativo alla responsabilità  della Pubblica Amministrazione per danno arrecato a privati a seguito di attività  illegittima rispetto a quello generale di cui all’art. 2043 cod. civ. consiste nel fatto che nel primo non è richiesto alla parte lesa un particolare sforzo probatorio per dimostrare la colpa dell’Amministrazione.
Infatti, pur non essendo configurabile una generalizzata presunzione di colpa della P.A., in mancanza di una espressa previsione normativa, possono operare regole di comune esperienza e la presunzione semplice di cui all’art. 2727 cod. civ. desunta dalla singola fattispecie.
Ne consegue che il privato può invocare l’illegittimità  del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile.
A questo punto, spetterà  alla Pubblica Amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, derivante da contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma a formulazione incerta o di norme da poco entrate in vigore, dalla complessità  del fatto, dall’influenza determinante di altri soggetti, dall’illegittimità  derivante da una successiva declaratoria di incostituzionalità  della disposizione applicata.
Si può, quindi, affermare l’assenza di colpa dell’Amministrazione resistente (circostanza dimostrata dalla P.A. su cui gravava il relativo onere probatorio [cfr. menzionata nota della Prefettura di Bari del 27.9.2013]), a fronte di un procedimento amministrativo estremamente complesso (quale certamente quello che porta all’adozione della interdittiva antimafia, stante la evidente difficoltà  degli accertamenti in detto ambito) ed in conseguenza della constatazione di plurimi elementi che hanno indotto la stessa Amministrazione a ritenere (sia pure adottando un provvedimento amministrativo illegittimo per difetto di motivazione) il coinvolgimento di -OMISSIS– -OMISSIS-e-OMISSIS-(genitori del legale rappresentante [-OMISSIS-] della società  ricorrente -OMISSIS-.) in un contesto sostanzialmente “mafioso” (cfr. informativa della DDA di Bari del 16.3.2010) e, quindi, persuaso l’Amministrazione ad adottare il provvedimento interdittivo del 31.10.2008 e gli altri provvedimenti del 2008 (sospesi con ordinanza cautelare n. -OMISSIS- ed annullati con sentenza n.-OMISSIS-per difetto di motivazione e quindi per un vizio meramente formale).
Peraltro, in controversie analoghe (azioni, esperite nei confronti dell’Amministrazione prefettizia, volte alla condanna al risarcimento dei danni consequenziali all’annullamento giurisdizionale della informativa prefettizia antimafia) la giurisprudenza amministrativa (cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. I, 12 maggio 2014, n. 2616; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. I, 4 dicembre 2012, n. 4893; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. I, 18 settembre 2012, n. 3891; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. I, 18 settembre 2012, n. 3890) ha specificamente escluso la sussistenza dell’elemento psicologico della colpa della Amministrazione resistente, in quanto vanno considerate le difficoltà  e la complessità  delle questioni da affrontare nell’esercizio della funzione amministrativa di merito che nella specie (accertamenti finalizzati all’adozione dell’informativa prefettizia antimafia) implica indagini e verifiche delicate ed insidiose di una realtà  sfuggente, quale è appunto la mafia.
In particolare, T.A.R. Campania, Napoli, Sez. I, 4 dicembre 2012, n. 4893 fa riferimento espressamente (cfr. punto 3 della motivazione) a controversie (quale evidentemente quella oggetto della decisione) in cui non trova diretta applicazione il diritto comunitario e quindi il principio di responsabilità  “oggettiva” della P.A. di cui alla sentenza della Corte di Giustizia n. 314/2010 in tema di responsabilità  dello Stato per violazione della normativa comunitaria sugli appalti pubblici.
Pertanto, la sentenza del T.A.R. Napoli n. 4893/2012 correttamente si preoccupa di verificare la sussistenza o meno dell’elemento psicologico dell’illecito aquiliano della P.A. con riferimento ad una controversia in cui si faceva questione del risarcimento del danno consequenziale ad una informativa antimafia illegittima.
Ne consegue che da detta verifica non è possibile prescindere nel caso di specie, il quale da questo punto di vista è identico a quello affrontato dal T.A.R. Napoli e, quindi, merita analoga soluzione.
Peraltro, gli atti impugnati con il ricorso r.g. n. -OMISSIS-ed annullati con la sentenza di questo T.A.R. n.-OMISSIS-sono tutti risalenti al 2008, mentre il certificato rilasciato dalla Procura della Repubblica di Palermo nel quale si attesta che i sig.ri-OMISSIS-(genitori del legale rappresentante della -OMISSIS-) “¦ non risultano mai essere stati iscritti nel proc. n. 16287/00 N.R., definito con decreto di archiviazione emesso dal G.I.P. presso il Tribunale di Palermo del 7.1.2009” risale al 26.1.2009, come anche il menzionato decreto di archiviazione del G.I.P. risale al 2009 (precisamente il 7 gennaio 2009).
Ne consegue che al momento dell’adozione degli atti “interdittivi” del 2008 (contestati con il giudizio r.g. n. -OMISSIS-) l’Amministrazione agente non era nelle condizioni di valutare in senso favorevole per la società  ricorrente un elemento concretizzatosi solo in epoca successiva (e cioè nel 2009), pur dovendosi peraltro la legittimità  di un provvedimento amministrativo accertare con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione, secondo il principio del tempus regit actum (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 16 aprile 2013, n. 2094).
Detta ultima osservazione può certamente incidere in ordine alla valutazione della colpa della P.A. nel senso di escluderla al momento (31.10.2008) dell’adozione degli atti annullati con la sentenza n. -OMISSIS-.
Inoltre, in ordine alla valutazione della colpa della P.A. non può non rilevare la constatazione per cui la società  ricorrente -OMISSIS- appare essere non totalmente estranea al fenomeno mafioso contestato con la nota interdittiva del 31.10.2008, il che determina un concorso “colposo” ex art. 1227, comma 1 cod. civ. (applicabile anche nella materia della responsabilità  aquiliana in forza del rinvio di cui all’art. 2056, comma 1 cod. civ.) della stessa società  nella causazione del pregiudizio lamentato.
A tal proposito, si rammenta che, come condivisibilmente evidenziato da Cass. civ., Sez. III, 25 febbraio 2014, n. 4446, “L’ipotesi del concorso di colpa del danneggiato di cui all’art. 1227, comma 1, c.c. non concretando un’eccezione in senso proprio, ma una semplice difesa, dev’essere esaminata e verificata dal giudice anche d’ufficio, attraverso le opportune indagini sull’eventuale sussistenza della colpa del danneggiato e sulla quantificazione dell’incidenza causale dell’accertata negligenza nella produzione dell’evento dannoso, indipendentemente dalle argomentazioni e richieste formulate dalla parte. Anche il giudice d’appello – pertanto – può valutare d’ufficio tale concorso di colpa nel caso in cui il danneggiante si limiti a contestare in toto la propria responsabilità .”.
Pertanto, ritiene questo Collegio di procedere d’ufficio ad una disamina, ai fini di cui all’art. 1227, comma 1 cod. civ. (“Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità  della colpa e l’entità  delle conseguenze che ne sono derivate.”), del comportamento tenuto dalla società  ricorrente -OMISSIS-, osservando quanto di seguito esposto.
Invero, a fronte della dimostrata carenza di colpa dell’Amministrazione resistente per via di quella “realtà  sfuggente” in cui si concretizza il fenomeno mafioso, non può non muoversi, all’opposto, un addebito in termini di colpevolezza ex art. 1227, comma 1 cod. civ. nei confronti della società  ricorrente e della sua compagine sociale, la quale se fosse stata totalmente estranea a detto fenomeno “mafioso” non sarebbe di certo incorsa nel procedimento interdittivo (sia pure errato dal punto di vista formale della inosservanza della regola della doverosa motivazione, come sancito dalla sentenza n. -OMISSIS- che l’ha vista coinvolta.
I genitori (-OMISSIS– -OMISSIS-e-OMISSIS-) del legale rappresentante -OMISSIS-della società  ricorrente -OMISSIS-, infatti, risultano essere stati indagati per il reato di cui all’art. 416 bis cod. pen., come emerge dalla informativa del 23.5.2002 – indagine “Caronte” richiamata dalla informativa del 28.7.2008 e dalla richiesta di archiviazione del 20.2.2007.
Dalle visure camerali in atti risulta che -OMISSIS– -OMISSIS-è stato socio della società  ricorrente -OMISSIS-, mentre-OMISSIS-è attualmente socia di maggioranza (€ 70.000,00 su € 100.000,00 di capitale sociale; il figlio -OMISSIS-possiede una quota di € 30.000,00 della società  -OMISSIS-).
L’intensità  del vincolo di parentela (nel caso di specie intercorrente tra -OMISSIS-, legale rappresentante della società  -OMISSIS-, e -OMISSIS– -OMISSIS-e-OMISSIS-) – come evidenziato da Cons. Stato, Sez. VI, 12 novembre 2008, n. 5665 – può anche essere considerato, in uno ad altri elementi, ai fini di valutare la contiguità  mafiosa dell’impresa.
Inoltre, il capitolo III della nota n. 465/50-2000 di prot.llo redatta il 23.5.2002 dal Comando Compagnia Carabinieri di Cefalù (cui fa riferimento la richiesta di archiviazione del 20.2.2007) acquisita a seguito della integrazione istruttoria di cui alla ordinanza n. -OMISSIS-contiene significativi elementi a carico di -OMISSIS-(classe 1961) e-OMISSIS-relativamente alle fattispecie di reato di cui agli artt. 416 bis e 629 cod. pen.
Dalla informativa del 16.3.2010 (cfr. pag. 20) emergono, infatti, elementi (per esempio intercettazioni telefoniche) da cui è possibile desumere che i coniugi-OMISSIS-gestissero le estorsioni nel settore degli autotrasporti (in particolare dalle diverse conversazioni intercettate sarebbe emerso come -OMISSIS– classe 1961, insieme al cugino -OMISSIS– classe 1949, alterando completamente le regole concorrenziali di un libero mercato, non permettevano agli altri autotrasportatori di effettuare trasporti nell’ambito del territorio di Canicattì) e che, in definitiva, il figlio -OMISSIS-(legale rappresentante della società  ricorrente) fosse in realtà  un mero prestanome dei genitori (cfr. pag. 3 della nota prefettizia del 26.11.2013).
Ritiene, pertanto, questo Collegio che il complesso di tali circostanze (idonee a delineare una “colpa” della società  danneggiata ex art. 1227, comma 1 cod. civ.) abbia avuto indubbia incidenza causale – alla stregua del principio di diritto di cui a Cass. civ., Sez. III, 25 febbraio 2014, n. 4446 – nella produzione dell’evento dannoso lamentato, avendo la stessa società  sostanzialmente indotto con il suo comportamento l’Amministrazione ad effettuare accertamenti che diversamente non vi sarebbero stati.
Peraltro, la constatazione della estraneità  dei coniugi-OMISSIS– come attestato dal certificato rilasciato dalla Procura della Repubblica di Palermo in data 26.1.2009 – rispetto al procedimento RGNR n. 16287/00 definito con decreto di archiviazione del G.I.P. del 7.1.2009 è priva di pregio, poichè i coniugi-OMISSIS-sono stati comunqueab origine indagati – come risulta dalla nota n. 465/50-2000 di prot.llo redatta il 23.5.2002 dal Comando Compagnia Carabinieri di Cefalù – per il reato di cui all’art. 416 bis cod. pen. (associazioni di tipo mafioso).
Infine, depongono in senso certamente sfavorevole all’accoglimento della domanda risarcitoria azionata da parte ricorrente le considerazioni espresse da Cons. Stato, Sez. IV, 4 settembre 2013, n. 4439 secondo cui la domanda di risarcimento del danno causato da un illegittimo provvedimento amministrativo (i.e. nella vicenda in esame nota informativa del 31.10.2008), annullato in sede giurisdizionale (nella presente fattispecie con la sentenza del T.A.R. Bari n. -OMISSIS- per difetto di motivazione, non può essere accolta ove persistano in capo all’Amministrazione significativi spazi di discrezionalità  (come nel caso di specie in virtù della espressa salvezza del potere della P.A. a pag. 7 della motivazione della sentenza n. -OMISSIS-: “¦ Resta salvo, nel rispetto dei principi e delle regole vigenti in materia di misure di prevenzione antimafia, il potere dell’Amministrazione di rinnovare l’istruttoria ed assumere nuovi provvedimenti interdittivi congruamente motivati, sulla base di concreti ed adeguati presupposti fattuali. ¦”) in sede di riesercizio del potere (tenuto altresì conto del carattere – per quanto in precedenza sottolineato – non totalmente estraneo al fenomeno “mafioso” della società  -OMISSIS-, tale per cui è ben possibile che un procedimento supportato da adeguata istruttoria possa ragionevolmente condurre ad un esito identico rispetto a quello di cui alla citata nota del 31.10.2008).
Si può, quindi, immaginare in astratto (o quantomeno non si può escludere la futura adozione di) un provvedimento di interdittiva antimafia nei confronti della -OMISSIS-, fornito di congrua motivazione, e, conseguentemente, al riparo dalle doglianze di cui al ricorso r.g. n. -OMISSIS-.
Sul punto si è così espresso Cons. Stato, Sez. V, 16 aprile 2014, n. 1860:
“La domanda di risarcimento del danno causato da un illegittimo provvedimento, annullato in sede giurisdizionale per difetto di motivazione, non può essere accolta ove persistano in capo all’Amministrazione significativi spazi di discrezionalità  in sede di riesercizio del potere e, in tale particolare contesto il privato ha titolo al risarcimento solo ove, sussistendo gli altri requisiti dell’illecito, riesca a dimostrare, e in questo caso proprio lui, che la propria aspirazione al provvedimento era destinata, secondo un criterio di normalità , ad un esito favorevole.”.
Giova, altresì, rammentare quanto condivisibilmente affermato da Cons. Stato, Sez. IV, 30 giugno 2006, n. 4231 (su ipotesi analoga [i.e. annullamento di un atto amministrativo per vizio di istruttoria e di motivazione]):
«¦ L’annullamento di un atto amministrativo per vizi di forma o per difetto di istruttoria e di motivazione, come nella specie, consente il nuovo esercizio del potere e permette la valutazione della domanda di risarcimento del danno soltanto all’esito del nuovo esercizio del potere. Ove dovesse sopravvenire un provvedimento negativo, sarebbe esclusa la sussistenza di un danno risarcibile derivante dal primo provvedimento, salva la verifica degli estremi del danno in caso di annullamento giurisdizionale anche del secondo provvedimento (C. Stato, IV, 4.9.2002, n. 4435).
La domanda di risarcimento del danno causato da un illegittimo provvedimento negativo (di esclusione) annullato in sede giurisdizionale per difetto di motivazione, non può essere accolta ove persistano in capo alla pubblica amministrazione significativi spazi di discrezionalità  amministrativa pura in sede di riesercizio del potere e la parte istante non si sia limitata a chiedere il mero danno subito per effetto di una illegittimità  procedimentale, ma abbia richiesto l’intero pregiudizio derivante dal mancato conseguimento del bene della vita, costituito dalla positiva aggiudicazione rispetto alla gara dalla quale era stata esclusa.
Rispetto al danno richiesto effettivamente, rapportato al mancato conseguimento finale del bene finale, l’accoglimento della domanda presuppone la valutazione circa la spettanza sostanziale della utilità  finale cui aspira il ricorrente, che nella specie non è accertata al di fuori di ogni ragionevole dubbio.
D’altronde, l’accoglimento della domanda demolitoria limitatamente a motivi di censura procedimentale (difetto di motivazione) da un lato non è in grado di consentire una conclusione circa la spettanza “au fond” (secondo la dottrina d’oltralpe) del “bene della vita”; dall’altro grado, sotto altro punto di vista, l’assorbimento dei motivi diversi – non affrontati per l’accoglimento del solo motivo procedimentale – pone l’onere di impugnazione a carico di chi abbia visto respinte o comunque non accolte alcune delle proprie domande. ¦».
Questo principio è stato riaffermato da Cons. Stato, Sez. V, 8 febbraio 2011, n. 854:
«¦ Osserva la Sezione che la domanda di risarcimento dei danni è regolata dal principio dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c., sicchè grava sul danneggiato l’onere di provare, ai sensi del citato articolo, tutti gli elementi costitutivi della domanda di risarcimento del danno per fatto illecito (danno, nesso causale e colpa).
Il risarcimento del danno non è quindi una conseguenza automatica e costante dell’annullamento giurisdizionale, richiedendo la positiva verifica, oltre che della lesione della situazione soggettiva di interesse tutelata dall’ordinamento, della sussistenza della colpa o del dolo dell’Amministrazione e del nesso causale tra l’illecito e il danno subito.
Il risarcimento del danno conseguente a lesione di interesse legittimo pretensivo è subordinato, pur in presenza di tutti i requisiti dell’illecito (condotta, colpa, nesso di causalità , evento dannoso), alla dimostrazione, secondo un giudizio di prognosi formulato ex ante, che l’aspirazione al provvedimento fosse destinata nel caso di specie ad esito favorevole, quindi alla dimostrazione, ancorchè fondata con il ricorso a presunzioni, della spettanza definitiva del bene collegato a tale interesse, ma siffatto giudizio prognostico non può essere consentito allorchè detta spettanza sia caratterizzata da consistenti margini di aleatorietà  (Consiglio di Stato, sez. V, 15 settembre 2010, n. 6797).
Deve quindi escludersi che l’annullamento di un atto illegittimo per difetto di motivazione possa ex se comportare il diritto al risarcimento dei danni subiti, in quanto tale vizio non esclude (ma, anzi, consente) il riesercizio del potere, con la conseguenza che la domanda di risarcimento non può essere valutata che all’esito nel nuovo eventuale esercizio del potere.
Va dunque respinta la domanda di risarcimento del danno nel caso di accertamento giudiziale dell’illegittimità  di un provvedimento, come nel caso che occupa, per difetto di motivazione, nulla potendo evincersi da detta statuizione riguardo alla fondatezza della pretesa fatta valere dall’interessato ed al nesso di causalità  tra il danno e la condotta dell’amministrazione.
Comunque sarebbe da escludere la responsabilità  della pubblica Amministrazione nel particolare caso di specie, poichè sussistono gli estremi per il riconoscimento della scusabilità  dell’errore di diritto, in ragione della novità  della questione e della complessità  della situazione di fatto. ¦».
Nella vicenda in esame la ricorrente -OMISSIS- non è riuscita a dimostrare che la propria aspirazione al provvedimento era destinata, secondo un criterio di normalità , ad un esito favorevole, risultando semmai – come già  detto – che, stante il carattere non totalmente estraneo al fenomeno “mafioso” della società  de qua in forza delle argomentazioni espresse in precedenza, non avrebbe potuto ragionevolmente conseguire un provvedimento favorevole.
Secondo quanto evidenziato da Cons. Stato, Sez. V, 8 febbraio 2011, n. 854, pertanto, la domanda di risarcimento proposta da -OMISSIS- non può essere valutata che all’esito nel nuovo eventuale esercizio del potere (che allo stato non risulta esservi stato).
Da ultimo, non si può non rammentare un recente arresto giurisprudenziale del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. III, 23 gennaio 2015, n. 302) perfettamente pertinente rispetto alla fattispecie per cui è causa, la cui applicazione implica, in uno alle considerazioni in precedenza svolte, la reiezione della domanda risarcitoria:
«¦ Come ripetutamente affermato in giurisprudenza, l’annullamento giurisdizionale del provvedimento amministrativo per vizi formali, tra i quali si può annoverare non solo il difetto di motivazione, ma anche e soprattutto i vizi del procedimento, non reca di per sè alcun accertamento in ordine alla spettanza del bene della vita coinvolto dal provvedimento caducato ope iudicis e non può, pertanto, costituire il presupposto per l’accoglimento della domanda di risarcimento del danno (tra le altre, Consiglio di Stato, sez. V, 14/10/2014, n. 5115).
In altri termini, l’annullamento che non reca alcun accertamento in ordine alla spettanza del bene della vita coinvolto dal provvedimento caducato ope iudicis, non può costituire il presupposto per l’accoglimento della domanda di risarcimento del danno, posto che soltanto qualora sia stata accertata la spettanza del c.d. “bene della vita”, che costituisce il presupposto indispensabile in materia di risarcimento degli interessi legittimi di tipo pretensivo, si può configurare una condanna dell’Amministrazione al risarcimento del relativo danno (cfr. sul punto, ex plurimis, Cass. Civ., Sez. I, 28 febbraio 2014 n. 4804 e Sez. III, 14 febbraio 2014 n. 3431; Cons. Stato, Sez. V, 22 gennaio 2014 n. 318 e 4 settembre 2013 n. 4452 e 8 maggio 2013 n. 2899, nonchè Sez. V, 22 gennaio 2014 n. 318, Sez. IV, 4 settembre 2013 n. 4439 e Cons. Stato, A.P. 3 dicembre 2008 n. 13). ¦».
E’, quindi, evidente che l’annullamento giurisdizionale con sentenza n.-OMISSIS-della nota prefettizia del 31.10.2008 per un vizio formale, quale il difetto di motivazione, non reca di per sè alcun accertamento in ordine alla spettanza del bene della vita coinvolto dal provvedimento caducato ope iudicis e non può, pertanto, costituire il presupposto per l’accoglimento della domanda di risarcimento del danno.
Nel contempo è comunque il caso di soggiungere che, per quanto concerne il rapporto con Grandi Lavori Fincosit s.p.a., il consulente tecnico d’ufficio a pag. 36 della relazione peritale attesta che il secondo contratto di subappalto del 24.3.2009 non lascia spazio a dubbi circa la volontà  delle parti di proseguire nello stesso rapporto contrattuale dopo l’ordinanza sospensiva del T.A.R. Bari n. -OMISSIS-; che dopo la menzionata ordinanza cautelare n. -OMISSIS- è stato stipulato un nuovo contratto di subappalto con la società  Mucafer avente ad oggetto lo stesso cantiere.
Ne consegue che, con specifico riferimento ai rapporti negoziali intercorrenti con Grandi Lavori Fincosit s.p.a. e con Mucafer, diversamente da quanto sostenuto da parte ricorrente, vi è stata soltanto una parziale (e limitata nel tempo) diminuzione del volume d’affari della -OMISSIS-; che il ripristino del rapporto contrattuale con Grandi Lavori Fincosit s.p.a. e con Mucafer dopo poco tempo è parzialmente satisfattivo in forma specifica dell’interesse sostanziale vantato dalla società  istante; che in ogni caso il danno complessivamente lamentato da parte ricorrente si sarebbe potuto integralmente evitare ai sensi dell’art. 30, comma 3, secondo inciso cod. proc. amm. attraverso il tempestivo esperimento nelle sedi opportune degli strumenti di tutela cautelare provvisoria anche monocratica ovvero ante causam contemplati dall’ordinamento.
Come evidenziato da Cons. Stato, Ad. Plen., 23 marzo 2011, n. 3, “La regola della non risarcibilità  dei danni evitabili con l’impugnazione del provvedimento e con la diligente utilizzazione degli altri strumenti di tutela previsti dall’ordinamento – oggi sancita dall’art. 30, comma 3, c.p.a. – deve ritenersi ricognitiva di principi già  evincibili alla stregua di un’interpretazione evolutiva dell’art. 1227, comma 2, c.c. Pertanto l’omessa attivazione degli strumenti di tutela costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà , ai fini dell’esclusione o della mitigazione del danno evitabile con l’ordinaria diligenza e perciò un fatto da considerare in sede di merito, ai fini del giudizio sulla sussistenza e consistenza del pregiudizio risarcibile.”.
Nel caso in esame non risulta che nell’ambito del giudizio r.g. n. -OMISSIS-sia stata richiesta dalla società  -OMISSIS- la tutela cautelare provvisoria monocratica all’epoca prevista dall’art. 21, comma 9 legge n. 1034/1971, come modificato dall’art. 3 legge n. 205/2000 (la cui disciplina è attualmente confluita nell’art. 56 cod. proc. amm.).
A tal proposito, Cons. Stato, Sez. V, 27 maggio 2014, n. 2708 ha rimarcato la rilevanza, ai fini di cui all’art. 30, comma 3, secondo inciso cod. proc. amm. (e cioè nel senso di escludere o limitare il danno risarcibile), del comportamento del soggetto danneggiato che ha omesso di attivare, tra i vari mezzi di tutela giurisdizionale contemplati dall’ordinamento, quelli di tipo cautelare:
«I provvedimenti cautelari adottati dal giudice amministrativo hanno la funzione di escludere o, comunque, di mitigare il danno insito nel provvedimento amministrativo impugnato, posto che la tutela cautelare è diretta alla temporanea salvaguardia della posizione del deducente onde consentirgli, qualora risultasse vincitore nel merito, di trarre l’utilità  sostanziale offerta dalla decisione, producendo in via temporalmente anticipata nella sua sfera giuridica benefici omogenei e comunque non superiori rispetto a quelli che la sentenza potrà  procurare; in dipendenza di ciò, e anche a prescindere dall’espressa statuizione al riguardo contenuta nell’art. 30 c.p.a., già  dai principi contenuti dall’art. 1227, comma 2, c.c., emergeva la regola della possibile non risarcibilità  dei danni evitabili con l’impugnazione del provvedimento e con la diligente utilizzazione degli strumenti di tutela cautelare previsti dall’ordinamento.».
In conclusione, non può non valutarsi in senso negativo il comportamento della società  ricorrente che, pur potendo avvalersi nell’ambito del giudizio r.g. n. -OMISSIS-degli strumenti di tutela cautelare monocratica menzionati al fine di limitare se non proprio escludere il pregiudizio lamentato, ha scelto di non usufruirne in violazione del canone di buona fede e dell’obbligo di cooperazione.
Dalle argomentazioni espresse in precedenza discende la reiezione del ricorso.
Stante l’esito del presente giudizio, devono respingersi le richieste istruttorie di parte ricorrente prive di utilità  ai fini della definizione della controversia.
In considerazione della natura, della peculiarità  e complessità  della presente controversia, sussistono gravi ed eccezionali ragioni di equità  per compensare le spese di giudizio.
Questo Collegio ritiene congruo liquidare al consulente tecnico d’ufficio incaricato il compenso nella misura forfetaria complessiva residua di € 8.162,59, oltre accessori come per legge (pari a € 10.162,59 [€ 7.686,35 a titolo di compenso nella misura media ex art. 2 D.M. 30.5.2002+ € 1.203,69 a titolo di compenso nella misura media exart. 4, lett. A D.M. 30.5.2002+ € 1.272,55 a titolo di compenso nella misura media ex art. 4, lett. B D.M. 30.5.2002] – € 2.000,00, somma quest’ultima corrisposta al consulente a titolo di anticipo in forza della ordinanza collegiale n. 110/2013) in ragione del valore della controversia e dell’attività  svolta dallo stesso e tenuto conto degli artt. 2 e 4 D.M. 30.5.2002.
Il pagamento del compenso complessivamente spettante al c.t.u. (€ 10.162,59, oltre accessori come per legge) è posto a carico delle parti (ricorrente e resistenti) in solido tra loro.
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, sede di Bari, Sez. I, definitivamente pronunciando sul ricorso come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Liquida al consulente tecnico d’ufficio incaricato il compenso nella misura forfetaria complessiva residua di € 8.162,59, oltre accessori come per legge.
Pone il pagamento del compenso complessivamente spettante al c.t.u. (€ 10.162,59, oltre accessori come per legge) a carico delle parti (ricorrente e resistenti) in solido tra loro.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità  amministrativa.
Manda alla Segreteria per gli adempimenti e le comunicazioni di rito alle parti ed al c.t.u.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52 dlgs 30 giugno 2003, n. 196, a tutela dei diritti o della dignità  della parte interessata, per procedere all’oscuramento delle generalità  degli altri dati identificativi di-OMISSIS-Calogero,-OMISSIS-e -OMISSIS-, manda alla Segreteria di procedere all’annotazione di cui ai commi 1 e 2 della medesima disposizione, nei termini indicati.
Così deciso in Bari nella camera di consiglio del giorno 11 febbraio 2015 con l’intervento dei magistrati:
 
 
Corrado Allegretta, Presidente
Francesco Cocomile, Primo Referendario, Estensore
Maria Grazia D’Alterio, Referendario
 
 
 
 

 
 
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
 
 
 
 
 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 18/03/2015
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

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